Quello che state per leggere è il risultato di due tensioni, tra loro contrapposte eppure intrecciate.
Da una parte, la visione plastica di una lite interna; dall’altra, un sacco di frustrazione.
C’è tra noi chi dice che pubblicità e comunicazione (o racconto, perché il termine storytelling ha rotto ogni organo presente o figurato delle nostre persone) non fanno altro che seguire le masse, i loro gusti e i loro dispiaceri quotidiani di vite affannose per poi impacchettarli in un contenitore godibile e piacente. C’è poi chi afferma che invece no, che pubblicità e comunicazione guidano le masse, indicando loro cosa devono desiderare e cosa, invece, odiare.
In tutto questo, c’è una confessione da fare: noi, le persone che hanno lanciato questo progetto, siamo pubblicitari e comunicatori. Paghiamo, cioè, le bollette grazie ai consumatori spasmodici. Grazie al principio nuda vita più consumo. E con consumo non ci riferiamo solo ai beni da supermercato, no, parliamo anche di libri, riviste, mostre, fotografie, progetti ESG-oriented, come si dice oggi: tutto può essere consumato e fagocitato a ritmo crescente, quindi tutto può essere reclamizzato.
Ed ecco la frustrazione. Sarà mica che è anche colpa nostra se il mondo sta scoppiando sotto i colpi del green-washing, dell’overtourism, del consumismo? Sarà mica che anche grazie alle nostre capacità professionali di comunicatori il mondo si sta rincoglionendo?
Noi che abbiamo contratti precari, noi copywriter, grafici, sviluppatori, project manager che nelle agenzie di comunicazione subiamo spesso mobbing e molestie, portando a casa millecinquecento euro al mese ma con l’agio di dire che abbiamo studiato in università fantastiche e abbiamo conseguito master stratosferici con insegnanti al bacio?
Noi, classe disagiata (si ringrazia Raffaele Alberto Ventura per la sua Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, 2017), dovremmo sentirci in colpa di tutto ciò che sta accadendo? Dovremmo forse abiurare le nostre vite, le nostre professioni, le nostre passioni?
Che cos’è che fa il pubblicitario, insomma, questo losco individuo che nella vita comunica e rende bello ciò che si propone di vendere? In breve, analizza il mercato, sente il tempo che viene, estrae paure, frustrazioni, amori e desideri delle persone. Poi, traendo spunto dalle arti visive, dai libri che ha letto, dai film che ha visto, dai meme su cui ha riso scrollando Instagram e dalla sua sensibilità, dà al dato una bella verniciata creativa realizzando uno slogan – volgarizziamo il termine – e un’immagine d’impatto per dire a chi guarda e ascolta: “compra questo prodotto, scegli questo servizio, ti sentirai meglio”.
E clic, acquisto.
In questa dinamica, ci si dimentica che, oltre ai pubblicitari, ci sono altri due attori in gioco: il committente – il brand – che paga per la campagna e quindi la sceglie e, soprattutto, il consumatore. L’inerme che spesso, pur con tutte le lauree e i master accumulati, non capisce una ceppa di ciò che sta guardando.
Pubblicità e comunicazione sono le forme d’arte più sottovalutate di sempre. Frivolezze per rincoglioniti, secondo alcuni.
Le frivolezze più serie che possiate mai avere sotto mano, diciamo noi.
Se il consumatore è inerme dinanzi agli strumenti utilizzati dalla pubblicità e dalla comunicazione e il pubblicitario (brutto, sporco e cattivo) ha gioco facile nel vendere spesso ciarpame del brand, allora – a voler credere a chi fra noi dice che sì, c’è una responsabilità del pubblicitario – dobbiamo far qualcosa.
E quel qualcosa è SPOT – Brutti, Sporchi e Cattivi. Una rivista che vuole – chissà se ci riuscirà mai – mostrare la pubblicità sotto una lente diversa, meno deformata: perché quella campagna pubblicitaria usa il verde come colore? Perché quell’affissione è stata fatta proprio lì, davanti al Bosco Verticale della city? Perché quello spot è stato mandato in onda durante La prova del cuoco? Non di certo perché lì si dice che fa schiuma ma non è sapone!
O forse sì?

Ma dato che noi siamo abbastanza ambiziosi e non vogliamo metterci in cattedra a dire che possiamo insegnare qualcosa a qualcuno, SPOT ha un altro grande obiettivo che nasce dalla nostra frustrazione: pubblicità e comunicazione sono cultura e arte. Perché lì dentro ci sono i codici condivisi di una certa società. Solo che, affannati a insultare ciecamente la pubblicità e le sue frivolezze del cazzo per far spendere e consumare idioti addormentati, non lo vediamo.
Allora, se esse sono cultura e arte, ma pure narrazione, neuroscienze, evoluzionismo e altre belle cose impegnate, chiameremo scienziati, scrittori, fotografi, esperti di arti figurative e altra gente di questo tipo a individuare nella pubblicità e nella comunicazione i codici culturali e artistici sottostanti.
Nessuna pubblicità è improvvisata. Nessuna campagna di comunicazione si lancia sull’onda emotiva. Sotto c’è sempre un mondo che sfrigola come il soffritto per il ragù della domenica. Il punto è andare oltre la frivolezza e sentire l’odore. Che è molto più intenso del “compra questo ragù, come fatto in casa”.
Noi, pubblicitari e comunicatori, non vogliamo abiurare gli spot tv e radio, i post su LinkedIn, le campagne OOH (out-of-home, le affissioni per strada, ndr) e i social – perché ci danno da mangiare e ci evitano lo sfratto. Vogliamo piuttosto che uno, almeno uno di voi, si fermi davanti a post Instagram o un cartellone pubblicitario e, dopo il primo colpo in cui è la mente del consumatore ad attivarsi, con il cervello si domandi: perché hanno usato quella parola e quel colore insieme? Strano, però, mi ricordano molto quella foto di…
Questo è il programma. Siamo abbastanza sicuri che sarà un fallimento. Ma in quel caso, per una volta, non sarà colpa dei pubblicitari, Brutti, Sporchi e Cattivi.
E ora, prego, consumate pure questi contenuti.