Questa è la storia di un inseguimento.
Per settimane ci siamo interrogati su quale voce desiderassimo ospitare per inaugurare questo folle progetto, quale voce potesse introdurci i temi portanti della comunicazione (e della pubblicità) di oggi. Avevamo bisogno di una voce autorevole, d’esperienza e capace di acchiappare immediatamente il nocciolo della questione. Una voce sensibile per riconoscere le vibrazioni del mondo e analizzarle.
Nell’inseguire e ricercare questo ideale di voce – e di penna – è capitato poi un caso, ovvero di entrare in libreria e di incontrare un libro, pubblicato nel 2024 da Il Saggiatore. Si intitola Parole in tempesta. Dizionario della contemporaneità (Il Saggiatore). L’autrice è una di quelle persone capaci di attirare la stima di chi ascolta e legge, anche se non ci si trova d’accordo in tutto.
Eccola, abbiamo pensato guardando il libro apparso per caso, è lei che vogliamo per introdurre SPOT.
E lei, l’autrice di Parole in Tempesta, è Silvia Brena.
Scrittrice e giornalista (Io Donna e Cosmopolitan, solo per citare alcune riviste in cui ha lavorato e che ha diretto). Oggi è Ceo di Network Comunicazione, agenzia con sede a Milano; insieme alla costituzionalista Marilisa D’Amico ha fondato VOX – Osservatorio italiano sui diritti ed è membro del coordinamento della Rete nazionale contro i discorsi e i fenomeni di odio.
Silvia Brena è molte cose ma, su tutte, ci piace vederla come una cantastorie: il mestiere più bello del mondo.
Dopo averle presentato il progetto della rivista e aver incassato il suo sì all’intervista, è iniziato un altro inseguimento: impegni di lavoro e personali, imprevisti, urgenze sui clienti. A voler inserire in quelle settimane anche la morte di Francesco I e l’elezione a Papa di Leone XIV, possiamo dire che nelle settimane in cui cercavamo di intervistare Silvia Brena è successo (quasi) di tutto.
Eppure eccoci qua.
L’intervista che state per leggere ruota attorno ad alcune parole chiave, quelle che secondo noi di SPOT sono i pilastri della comunicazione e della pubblicità di oggi. Ed è su quelle parole che è avvenuto il confronto di visioni tra la comunicazione e la pubblicità. Con al centro la parola più importante di tutte: verità. Qualunque cosa sia, oggi, la verità.
SEDUZIONE
La prima parola che poniamo dinanzi a Silvia Brena. Il grande pittore (e pubblicitario) Achille Beltrame – quello a cui dobbiamo la narrazione per immagini della Grande Guerra sulla Domenica del Corriere – descriveva la pubblicità come mezzo di seduzione.
Il commento di Silvia a questo è tutto fuorché morbido, com’è giusto che sia. “Io mi occupo di racconti e di strategie narrative” dice “di quel settore della comunicazione, che mette in campo ascolto e restituzione alla ricerca di main frame comunicativi, capaci di connettere le comunità. Da questo punto di vista, la parola seduzione è lontanissima dal mio mondo e dal mio perimetro professionale. Appartiene, secondo me, a un’era giurassica, quando la comunicazione era appiattita sulla pubblicità, il cui unico compito era vendere. Oggi il tema non è sedurre o convincere, ma entrare in contatto empatico con il proprio pubblico. È costruire percorsi di senso per le proprie comunità di riferimento. A questo servono le storie”.
Ma sedurre significa affascinare e portare qualcuno a sé. Lo fa la pubblicità, ma anche la comunicazione in generale, rispondiamo noi, che invece di pubblicità ci occupiamo eccome. E il racconto non è una seduzione?
“Non lo è.” è la risposta di Brena. “Raccontare significa aprirsi al mondo dell’altro, incontrare le persone sulla base di una condivisione di storie, di memoria e di esperienze. Come risulta evidente, scegliere un imprinting narrativo comporta l’acquisizione di vissuti ed esperienze collettive: è un movimento di ascolto, come dicevo. Non cerca più o meno facili conquiste, né l’inevitabile bisogno di seduzione che questo comporta. Certo, se per seduzione si intende il bisogno di attrarre l’altro, ogni buon racconto presenta anche questa dimensione. Ma io credo che oggi la sfida della comunicazione sia tutt’altra: con il passaggio dall’analogico al digitale, abbiamo scoperto e sfruttato il potenziale di co-creazione di contenuti, cioè la costruzione di storie condivise. Così, i brand sono diventati creatori di narrazioni coese e condivise: si è passati dal bisogno di convincimento alla necessità di ingaggio e trasmissione valoriale, di creazione di percorsi di senso condivisi. In questo scenario, il tema della verità della propria narrativa diventa esplosivo: perché ci parla del Dna del brand, della sua autorevolezza e quindi della sua reputazione”.
VERITÀ
“Verità è il lemma che ci collega a tutto e ci porta lontano” inizia Brena. “Nel mio libro [Parole in tempesta] – questa parola assume valore essenziale: perché essenziale oggi, nell’era dell’Intelligenza Artificiale, è definirne i contorni e cercare di prefigurare degli scenari in cui le persone non hanno /avranno più il controllo della verità fattuale per definire i propri sistemi di credenza. In cosa devo/ posso credere, quando le immagini che vedo online possono essere manipolate, false e restituirmi quindi parametri di credibilità lontanissimi da quelli fissati per stabilire la veridicità di un elemento? Pensiamo alle immagini generate dalla AI, come quella di Trump vestito da Papa. Uno dei casi più interessanti del momento, che sta facendo molto discutere è un libro intitolato Ipnocrazia (edizione italiana Tlon, ndr) firmato da un autore sconosciuto, Jianwei Xun, scritto con uno stile che ricorda da vicino quello, inconfondibile, di Byung-chul Han (filosofo coreano che insegna a Berlino, ndr): uno stile argomentativo fatto di frasi brevi, quasi aforismi dal forte potere convincente. In Ipnocrazia si sostengono tesi interessanti e attuali, come la postulazione che oggi le piattaforme social costruiscono ecosistemi di significato: non danno solo informazioni e non costruiscono percorsi di senso, come la comunicazione tradizionale, ma veri e propri ecosistemi, quindi modellano ciò che percepiamo. Solo che poi si è scoperto che il libro è un fake, costruito da un collettivo di autori guidati dalla casa editrice e dall’Intelligenza Artificiale. E molti ci sono cascati, facendone un argomento di dibattito. Dove sta, allora, il confine tra verità, verosimiglianza e autenticità?
Quello che certamente sappiamo – ed è lo scenario sul quale si lavora oggi nel campo della comunicazione – è che l’Intelligenza Artificiale è una sorta di generatore di realtà, che produce flussi di contenuti coerenti che sfumano il confine tra espressione autentica e artificiale. Si tratta di reti di significato che si automodellano e soprattutto si autovalutano. Come se fossimo davanti a una blockchain semantica, dove la verità viene valutata e validata da chi fa parte del processo. Se a tutto ciò, aggiungiamo il noto fenomeno delle camere dell’eco, tale per cui sui social veniamo immessi in un flusso di contenuti generati da persone che la pensano come noi, si capisce come lo scenario sia preoccupante”.
Cosa c’entra, questo, con il concetto di verità?
“Tutto”, risponde Silvia Brena. “Questo cambia la percezione della verità. Pensiamo al fact checking, alla verificabilità del fatto/ contenuto esposto, essenziale per i giornalisti, ma anche per tutti i comunicatori, che devono “certificare” la verità dei brand di cui si occupano: è un paradigma che, purtroppo, si andrà superando. Perché sarà sempre meno importante capire quale versione sia vera, e sarà sempre più cruciale mantenere il maggior numero di versioni possibile, vicine ai costrutti mentali e culturali che rappresentano.
Di fatto, sono assetti culturali che si autoalimentano. Con il corollario di stereotipi e bias che si portano dietro. E con il rischio di polarizzazione che, lo vediamo occupandoci di prevenzione dei discorsi d’odio, si fa sempre più evidente. In una parola, la verità dipende dalla bolla in cui siamo immersi.
L’anno scorso l’UNESCO ha fatto un esperimento interessante: è stato chiesto a Chat GPT di raccontare una storia con due punti di vista, uno maschile e l’altro femminile. Ne è risultato un racconto pieno di stereotipi, anche frusti e abusati: le donne erano relegate al lavoro di cura, agli uomini spettavano compiti legati alla loro dimensione esterna, di lavoro, carriera, etc. Siamo tornati ai sussidiari anni Cinquanta. Ma è chiaro che se la AI è alimentata con stereotipi, questo produce”.
E quindi ogni sforzo di racconto alternativo è vano davanti a tutto questo?
“Al contrario”, insiste Silvia “Dobbiamo continuare a cercarla, la nostra verità. Sempre nel mio libro cito la storia del Rabbino Loew che operava nella Praga del ‘500: fu lui, riporta la leggenda, a dar vita al Golem, il gigante d’argilla che doveva difendere la comunità ebraica dai pogrom (atti di violenza contro le comunità ebraiche, ndr) e dall’assalto dei cosiddetti gentili (goim in ebraico, cioè le persone non di religione ebraica, ndr). Per dar vita al Golem, il Rabbino gli incise sulla fronte la parola emet, che in ebraico vuol dire verità. Quando invece decise di distruggerlo, cancellò la prima lettera del lemma, la e. Il risultato fu met. Met in ebraico significa morte. Dunque, l’antidoto alla morte della verità? Dobbiamo ricercare l’autenticità. È il processo più corretto, in questo scorcio storico. Ma prima di tutto, dobbiamo domandarci cosa significhi cercare il proprio nucleo autentico. Significa aprirsi al dialogo – perché uno degli elementi fondamentali, anche per certificare la verità, è mettere a confronto la nostra verità con quella dell’altro. Nel mio libro cito una serie di parole ponte, capaci di trasferire il loro significato, la loro potenza, al lemma di partenza. Le parole ponte per verità? Ascolto, dialogo, memoria. Sta lì, nelle pieghe del confronto con la storia dell’altro e nel rispecchiamento che può produrre in noi, la nostra verità. E poi naturalmente c’è la parola rispetto: per se stessi e per gli altri, fondamentale per chi comunica”.
Se a dire questo è una professionista che si occupa da anni, a livelli altissimi, di contenuti e comunicazione, c’è da crederle quando l’accento viene posto sulla verità e sulla cannibalizzazione collettiva che ci aspetta, se la perdiamo. E allora ci viene spontaneo domandarle se ci sono delle regole base, dei percorsi mentali da fare per proteggersi dalla perdita di verità di oggi.
Qui, la voce di Brena si fa, se possibile, ancora più netta. “Lo dico vista la mia formazione giornalistica, bisogna tornare a delle regolette semplici che ci ancorino agli elementi fattuali.
1- Distinguere sempre le opinioni dai fatti, cosa che sembra una banalità ma non lo è
2- Cercare fonti diverse e attenersi al racconto di più fonti, senza pensare e sperare di poter certificare la verità di una rispetto a un’altra, ma riportandole in un confronto e nell’apertura: è, questa, la capacità di creare ponti
3- Comunicando agli altri, fornire sempre le fonti con estrema trasparenza, insieme a dati di contesto utili per capire in che ambito ci stiamo muovendo. Il racconto che anche da comunicatori dobbiamo fare deve originare da questo tipo di contesto
4- Indicare quella che è la nostra verità profonda, quella che siamo disponibili a condividere con gli altri. Perché la verità ha a che fare con la memoria, è la traccia di ciò che siamo, della nostra storia.
COERENZA E GIOVENTÙ
A proposito di memoria e verità, altre domande si affollano nella nostra mente, ma tra le varie ne scegliamo due: i giovani (Gen Z e Millennial) secondo una percezione di superficie sarebbero i più esposti a fenomeni che mortificano la verità, come la fake news. Se è vero, com’è vero, che la verità ha a che fare con la memoria, con la capacità di ricordare, e questa memoria la stiamo progressivamente perdendo, allora perdiamo anche di coerenza e chi commette atti di pink-green-rainbow washing ha gioco facile. Chi se lo ricorda, oggi, ciò che è stato detto ieri?
Siamo messi proprio così male, domandiamo.
“No” è la risposta secca. E meno male, diciamo noi. “In mancanza di coerenza, i brand non vengono perdonati. E le giovani generazioni su questo sono attente ed esigenti. Come documentato da una recente ricerca DOXA (Avere vent’anni nell’era digitale: comunicazione responsabile, giovani e fiducia, maggio 2025, ndr): leggendola, è chiaro come valori quali sostenibilità sociale e ambientale siano elementi fondamentali per la scelta non solo del singolo prodotto ma del brand che lo produce. E una delle discriminanti su cui non si è disposti a derogare è proprio la coerenza da parte dei brand”.
Bene, quindi non è vero che l’incoerenza è la regina della comunicazione moderna, festeggiamo. E invece, per quanto riguarda i giovani, la percezione è corretta, sono davvero più disarmati?
“Non direi. Secondo le ultime ricerche dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e dell’Eurobarometro, in Europa il 76% dei giovani dichiara di essere stato esposto a disinformazione e fake news. Il che significa che le sa riconoscere. Come dichiara, in Italia, il 70% dei ragazzi. Interessante notare che, tra questi, un buon 30% mette un like alle fake news, pur riconoscendole come tali.
In sintesi, non credo che i ragazzi non abbiano gli strumenti. Ma essere a conoscenza del fenomeno, non significa non restarne vittime. E la sensazione che molti giovani hanno di poterlo controllare (come si evince da quel 30%) non facilita. Il rischio? La formazione di un pensiero e di una lettura della realtà omologata e priva di “interferenze” vivificanti. Come rimediare? Ancora, con la possibilità di avere accesso a più fonti di conoscenza e informazione, a dialogo e confronto con opinioni diverse, accettando divergenze e punti di vista dissonanti: il che, lo sappiamo, è il sale della democrazia. Invece oggi, complici anche i media e la politica, il confronto quando c’è, è polarizzato e polarizzante: ho ragione io, non hai ragione tu. E torniamo alle bolle di cui parlavamo prima, in cui navighiamo contenti di interagire solo con persone che la pensano come noi. Pericolosissimo, per il danno sociale che questo meccanismo può produrre.
Riassumendo, i giovani sono più consci e consapevoli dello scenario in cui operano e sono più preparati a navigare nelle bolle digitali. Il problema sono le fonti a cui si abbeverano”.
SEMPLIFICAZIONE
Il confronto binario – ho ragione io, non hai ragione tu – la polarizzazione, da cui il nostro cervello è sempre attratto, la mancanza di memoria e di autenticità, o verità condivisa: portando avanti questi ragionamenti, viene in mente un vecchio scritto del 1985, una raccolta di articoli intitolata La prevalenza del cretino, di Fruttero e Lucentini (Mondadori).
Nell’articolo Nuovi, nuovissimi, anzi quasi vecchi, Fruttero e Lucentini esordiscono scrivendo che “le librerie somigliano sempre di più alle edicole dei giornali. […] Se il libro è tra le novità del mese, bene; sennò è inutile andarlo a cercare perché già non c’è più”. La conclusione è questa: “«Mentre la gente» dice Schopenhauer «invece del meglio di tutti i tempi, legge sempre e soltanto le ultime novità, il secolo sprofonda sempre di più nel proprio sterco. La novità è raramente buona, e il buono resta novità per poco tempo»”.
La novità non ha ieri e non ha domani, ha solo l’oggi e ci toglie l’esercizio della memoria. In una parola, semplifica e toglie profondità al ragionamento.
Cosa ne pensa, quindi, Silvia Brena della parola semplificazione – forse la più pubblicitaria di tutte?
“Semplificare è importante. Significa rendere il proprio messaggio comprensibile a tutti: non solo per convincere, anche per creare un flusso comunicativo adeguato e fornire ai propri interlocutori gli strumenti per capirci. Purtroppo, oggi semplificazione a volte significa superficialità. Perché è vero che per avere un messaggio polarizzato bisogna semplificare: è un’altra delle distorsioni provocate dall’avvento dei social. È il mantra e il diktat del linguaggio binario [sì o no, senza grigi]. E se questo diktat incontra l’impoverimento lessicale cui siamo sottoposti (secondo diverse ricerche i ragazzi oggi usano un vocabolario di circa 800 parole contro le 1500 delle generazioni precedenti), frutto anche della contrazione del linguaggio resa necessaria dalle chat e dai social, ecco che siamo di fronte alla tempesta perfetta. Ma noi sappiamo, lo spiegano bene gli psicologi, che se non si trovano le parole per dirsi, le emozioni che non trovano voce sfociano nella rabbia. E nella violenza, come purtroppo la cronaca ci mostra, anche con l’aumento di femminicidi e di omicidi compiuti da giovanissimi e con fenomeni quali le baby gang. E sui social, il fenomeno sta diventando esplosivo, lo dico da esperta di discorsi d’odio. Sappiamo che sui social i contenuti fortemente polarizzati funzionano meglio di quelli neutri. E sappiamo che ogni contenuto negativo, urlato, carico di aggressività, suscita un like, una reazione, in una frazione di secondo inferiore rispetto al contenuto caricato positivamente – e questo è anche il motivo per cui i discorsi d’odio si sono diffusi così tanto.
Anticorpi? Alfabetizzazione digitale: come si sta sui social, come ci si racconta etc. E alfabetizzazione emotiva: trovare le parole per raccontarci, scegliendo lo spettro positivo delle emozioni. È la strada che seguiamo per combattere lo hate speech: puntare sull’empatia, che ci rende umani, e star lontani dalla complessità, che noi rifuggiamo, perché la lettura di un mondo complesso ci fa paura. Dunque? Torniamo al potere delle belle storie. Come molti brand ci stanno dimostrando di saper fare, con ottimi risultati”.
A questo punto, il telefono di Silvia Brena squilla, deve chiudere, un’urgenza su un cliente. Una di quelle urgenze a cui siamo, purtroppo, abituati e che spezzano i ragionamenti a metà.
Sarebbe bello continuare a parlarne, proseguire sul percorso che ci porta a enucleare le parole chiave del nostro tempo, delle storie che ci stiamo raccontando tutti noi, stando insieme. Ma il tempo è tiranno – lo dicono anche i numeri della comunicazione e sulla nostra soglia di attenzione, sempre più bassa, che ci porta a fruire contenuti sempre più veloci, dunque semplici. O superficiali?
Silvia Brena deve correre via, a studiare delle narrazioni di mondo, facendo comprendere la realtà complessa; noi, invece, dobbiamo correre a scrivere lo script di uno spot televisivo per un brand, facendo vendere scatolette di tonno in modo seducente. Ognuno di noi, in fondo, sta inseguendo un obiettivo impossibile, un obiettivo di efficacia comunicativa: l’unica cosa che vogliamo eppure quella che proprio non riusciamo mai a ottenere. Tocca inseguirla, il lavoro consiste in questo.
Purtroppo il Golem del racconto, pronto a proteggerci da chi vuol farci del male, non esiste. O forse sì, e si trova nella penna di chi racconta. Una penna che si trova nelle mani di comunicatori, narratori e pubblicitari.Che la usino con cautela, quella penna, nonostante tutte le differenze tra i loro punti di vista. Che la usino veramente. Perché il Golem siamo noi.