Chiariamo subito un punto: quando parliamo di sesso, non facciamo riferimento a ciò che le persone fanno (o scelgono di non fare) nel loro spazio privato, qualunque esso sia.
Quando parliamo di sesso, qui, parliamo di seduzione. L’abbiamo già detto: qualcosa che ci attira, a cui non riusciamo a resistere e ha un impatto su di noi. In questo senso, sesso è sinonimo di arte. E di pubblicità.
Pensando a quale voce poter includere in SPOT per parlare di queste parole sinonimo (arte, pubblicità e sesso) il nome di Donato Sansone ci è venuto subito in mente.
La cosa simpatica è che, a voler svelare le dinamiche di preparazione di SPOT, le domande noi le abbiamo preparate prima, gliele abbiamo sottoposte, gli sono piaciute e qualche mese dopo ha trovato il tempo di venire da noi e risponderci. E senza farlo apposta, in concomitanza con l’intervista, a Donato Sansone sono successe alcune cose curiose:
- dopo appena una settimana di esposizione, gli hanno chiuso una delle Mostre di cui volevamo parlare nell’intervista, per motivi ancora sconosciuti
- gli hanno bannato il canale Vimeo con cui attira, da artista e creativo della pubblicità, la maggior parte dei clienti. Motivo? Un contenuto censurato. Perché mostrava un Cazzotto
- un grande brand – senza fare nomi: Samsung – si è lasciato sfuggire una di quelle campagne pubblicitarie che avrebbero fatto discutere e pensare
Quindi, a essere un po’ egoisti, per la nostra intervista è stato un momento molto fortunato. Perché di esempi di cui parlare a proposito del rapporto di odio e amore tra arte, pubblicità e consumatori/fruitori ne abbiamo avuti, eccome.

Partiamo da un presupposto: questa potrebbe apparire come un’intervista di promozione. La promozione di una mostra d’arte e quella di una mostra “commerciale”. Più o meno. Potrebbe essere un’intervista di promozione e proprio in questa reclamizzazione sta l’arte di cui vogliamo parlare.
Donato Sansone è l’essere vivente più vicino al termine surreale che abbiamo mai conosciuto: artista visivo, videomaker, graphic designer prestato alla pubblicità. Ma soprattutto ragazzo furbo, fantasioso e parecchio inquieto, come si definisce lui stesso. Secondo Artribune “uno degli autori più visionari, innovativi e inquietanti del panorama italiano”.
Se volete vedere qualcosa di lui, lo trovate su Instagram con il nome @donny_pomponny, un soprannome che gli ha dato la sua ex fidanzata e che sarebbe la fusione di Donny, pompino, e pon pon. A Donato Sansone vogliamo bene anche solo per questo.
Dal 7 aprile all’8 settembre 2025, il Museo Nazionale del Cinema di Torino ospita la sua mostra, Metaversi, curata da Bruno Di Marino.
Dal 21 marzo fino all’autunno 2025, invece, si sarebbe tenuta la mostra Illusionismi che Sansone ha realizzato per la Piazza Centrale de Le Gru. Per intenderci: il più grande e imponente centro commerciale del Piemonte.
Ci sembra un bel (finto) paradosso dal quale partire.
Pubblicitari nei musei
Quando ci siamo preparati a quest’intervista, la prima domanda che volevamo porre a Donato Sansone era proprio sulle due mostre, Metaversi e Illusionismi: una in un museo, l’altra nel luogo che esalta il consumismo. Volevamo capire insieme a lui se davvero c’è un paradosso nell’essere artista e promuovere il consumo di beni, compito della pubblicità.
Ma appena ci sediamo e iniziamo a registrare, partendo da questa domanda, subito Donato ci dà il primo colpo di scena: “ma là, alla mostra a Le Gru, è successo un patatràc” dice. Proprio così, un patatràc.
“Quella mostra, fatta di fenachistoscopi (strumento ottico inventato nel 1833 per visualizzare immagini animate, ndr), doveva durare fino all’autunno” ci spiega “ma l’hanno tolta prima senza motivo. Sarà durata una settimana o dieci giorni”.
Dopo aver chiacchierato un po’ di questa bella trovata de Le Gru, arriviamo a fare un ragionamento interessante: “è anche vero che la mostra a Le Gru non serviva per vendere niente, in realtà, era per far vedere l’attività del centro commerciale. Si doveva vendere credito sociale, non so come dire, il fatto che il centro commerciale occupasse uno spazio pensando però alle persone, non solo per farle spendere”, dice Donato. Ci piace l’idea della pubblicità di oggi come credito sociale.
L’arte oggi, da un punto di vista commerciale e pubblicitario, non serve a vendere un prodotto ma la reputazione del brand. “Sì” insiste Donato “il fatto che l’azienda possa permettersi di pagare un artista e che mettano nella pubblicità anche della cultura, non solo la vendita. Alla fine è un mezzo, una strategia. Ma che a me piace molto, perché mi piace confrontarmi con dei limiti”.
A proposito di limiti, però, un dubbio da condividere con Donato ci viene: nel momento in cui si lavora da artisti non c’è un pubblico target, si esprime ciò che si sente, punto. Poi la vendita e la fruizione da parte del pubblico arrivano in un secondo momento. Nel caso della pubblicità, invece, gli artisti si piegano totalmente a una targettizzazione. L’obiettivo, alla fine, è quello: scegliere una persona da ingaggiare e aggredirla – si spera, non letteralmente.
Donato ci riflette un po’, sospira e ci dice: “a volte bisogna piegarsi, sì. Però è anche vero che quando, per esempio, chiamano me sanno cosa faccio e vengono da me perché vogliono quello, quindi mi piego poco. Però in alcuni casi, come in questo de Le Gru, me l’hanno proprio detto, non strafare con le cose alla Donny”.
Le cose alla Donny è un’espressione che ci fa parecchio ridere. È uno stile così riconoscibile, quello di Donato Sansone, che quasi quasi ha un aggettivo a sé.
Arte vs. Pubblicità
Nella sua carriera Donato è stato chiamato a usare i suoi video, la sua arte, il suo stile ironico per lanciare (e vendere) prodotti, festival culturali, eventi sportivi, un sacco di roba, insomma. Allora abbiamo fatto un ragionamento con lui: l’arte non ha un principio di vendita, ha un principio espressivo. La pubblicità invece ha un obiettivo di vendita, è a quello che serve. Non è che per caso il paradosso sta tutto qui?
Il “no” secco di Donato come risposta immediata ci colpisce. “L’arte, è vero, ha un principio di espressione ma anche di invenzione. Ed è bello inventare qualcosa quando si hanno dei limiti. I limiti della vendita, con tutti gli ostacoli che ci possono essere. I limiti aguzzano l’ingegno. L’arte è invenzione: che sia invenzione libera, dello spirito, così come sento io, o che sia invenzione accompagnata da un limite espressivo, è comunque invenzione e creatività.
Infatti a me piace molto lavorare in pubblicità. Perché devo inventarmi qualcosa, un messaggio, che in pochi secondi susciti meraviglia nelle persone e che le affascini, le seduca. Qualcosa che venga ricordato. Mi piace molto come atteggiamento creativo”.
Politicamente (s)corretto
A proposito di limiti. Durante l’intervista, abbiamo riletto con Donato il commento alla Mostra Metaversi ospitata al Museo Nazionale del Cinema di Torino da parte del Direttore, Carlo Chatrian. Il commento dice “la scelta di dedicargli la prima personale risponde al valore e al ruolo che l’opera di Donato Sansone ricopre nel mondo politicamente corretto di oggi. Le opere esposte e quelle che vivono di vita propria nei tanti metaversi che ci circondano, smontano i nostri consolidati criteri di gusto e valore”.
Forse abbiamo trovato un punto di congiunzione tra pubblicità e arte: il politicamente corretto. Se questa stramba creatura dai contorni così sfumati esiste veramente, ammazza davvero l’arte, la comunicazione e la pubblicità?
“Si, è un limite il politicamente corretto” ci risponde. “Un limite artistico, creativo ed espressivo. Volete ridere? Manco a farlo apposta, stanotte ho subito un danno enorme: mi hanno chiuso Vimeo. Io sono conosciuto a livello internazionale su quel canale. Mi arrivano un sacco di lavori da Vimeo. Mi hanno chiuso il canale perché ho messo questo video qua”.

Se volete vedere l’originale, è sul canale YouTube di Donato Sansone. Quello ancora non gliel’hanno chiuso. “Questa è censura!” si agita Donato. E sul termine censura, il suo sorriso solito, con l’aria sghignazzante, si spegne.
“La censura è un casino perché io sono scorretto e mi diverto molto. Per me non significa mancare di rispetto, significa solo essere un piccolo bastardo simpatico. Noi abbiamo a che fare con persone che sono più maliziose di noi, quando guardano le opere”. E qui, si apre un fiume in piena.
“Su TikTok non sapete quanta roba mi tolgono. Mi hanno chiuso tre volte YouTube. Tre volte. Su Instagram mi hanno censurato diverse volte e quindi sto più attento. Anche perché non ci sono margini di trattativa, ti chiudono e basta. Non puoi dialogare provando a far capire”.
Niente, la caratteristica principale dell’arte e della creatività pubblicitaria, cioè la capacità di instaurare un dialogo tra chi crea e chi fruisce, le piattaforme la spezzano, la trucidano.
Per noi di SPOT, nel nostro piccolo, lo stile espressivo di Donato Sansone, sia nella sua arte che nella sua pubblicità, non è affatto insultante. Anche perché, a voler stare nell’esempio fatto – che tanti lutti addusse al canale di Vimeo di Donato – il Cazzotto esiste e non capiamo perché debba essere osceno rappresentarlo.
Però, d’altro canto, non tutti sono come Donato: alcuni non rappresentano la realtà in modo ironico. Fanno passare gli insulti per scherzo, lo sputo in faccia per sagacia. E dunque sotto il grande ombrello del politicamente corretto – che significa secondo voi? – è difficilissimo fare distinzione. E nel tentativo di proteggere, si distrugge indiscriminatamente.
“Guardate” aggiunge l’affranto Donato “non credevo che saremmo arrivati a tanto, ma vi faccio l’esempio di Instagram. Sapete che succede? Che io posto qualcosa di bastardo, di divertente e spontaneo e mi tolgono trenta o quaranta follower così, in blocco. Mi sono accorto che c’è un’ipocrisia di fondo, le persone sono infastidite quando vedono qualcosa di non pulito, di non corretto, non riescono a gestirlo”.
E però Donato Sansone è un resistente non violento, quasi gandhiano: “quando mi tolgono il follow per questi contenuti, sapete che faccio? Niente, non li tolgo!”.
Tiè.

Scomodità pubblicitaria
Chiacchierando con Donato, soprattutto di tutti i contenuti censurati dalle piattaforme o su cui riceve insulti dalle persone, ci viene in mente una riflessione.
Compito dell’arte ma anche della pubblicità è essere scomode. Noi dobbiamo essere scomodi se realizziamo qualcosa di artistico o un messaggio pubblicitario per la vendita. Perché dobbiamo rendere quel messaggio impattante e memorabile. Se tutto è piatto e tutto è uguale, non possiamo pretendere che qualcuno (il consumatore o fruitore) si ricordi di qualcosa, passa tutto liscio. Il punto, però, è che non siamo più in grado di stare scomodi, di accettare le scomodità che ci smuovono qualcosa dentro. Ma il problema è che se non riusciamo più ad accettare le scomodità che ci pungolano e ci sfidano a guardare da un altro punto di vista, non sappiamo più percepire arte e creatività.
Donato, forse, è anche più pessimista di noi: “ultimamente vogliamo essere tutti molto comodi e avere qualcosa che ci dia un senso di appagamento non fuorviante, che non cambi il nostro giudizio etico ed estetico sulle cose. Vogliamo vedere ciò che già sappiamo e pensiamo. Almeno, io personalmente sento questo. Quando le persone vedono qualcosa di scomodo, si sentono infastidite. C’è molta pigrizia, sia mentale che a livello di occhio, di sguardo. C’è molta più uniformità sulle parole e le immagini. Sembra tutto uguale. È che non ci piace essere troppo scossi, sia intellettualmente che visivamente: vogliamo stare comodi sul divano a vedere quella cosa che ci piace già e andare a letto tranquilli. Lo vedo dai miei social, da come reagiscono le persone alle mie cose. La mia particolarità come artista non sta in quello che faccio ma nella spontaneità con cui mi esprimo e butto giù tutto, in modo genuino e istintivo. E questo non piace, alle persone piace vedere l’artista che si presenta in un certo modo, che ha una certa estetica, una certa idea di bello – qualsiasi cosa significhi bello – che si presenta molto cool. Dal resto sono infastidite. Spesso sento persone che dicono a me piacciono molto gli artisti e i creativi. No, non è vero, piace l’estetica dell’artista o del creativo. Perché quelli veri sono un’altra cosa.
E anche gli artisti e i creativi a volte hanno bisogno di costruirsi quell’immagine. Io invece no, sono totalmente spontaneo. Tutto quello che ho lo cago fuori. E questo mi rende ancora un po’ vivo. Senza toccare i contenuti, perché quello lo decide ognuno di noi, è una scelta. Parlo del modo: io so che stamattina mi alzo in un certo modo, voglio fare una cosa, la faccio e la metto sui social. Punto. Non dev’essere una cosa leccata e patinata”.
Viene in mente che gli artisti, soprattutto oggi ma questo forse è stato vero sempre, sono i peggiori pubblicitari esistenti perché hanno un solo prodotto da vendere, la propria persona. Voi artisti siete i più pubblicitari del mondo, siete i più Brutti, Sporchi e Cattivi del mondo, diciamo a Donato. E Donato non dice niente, ride soltanto. Una bella risposta.
Lentezza e comunicazione
Venendo ai social, però, un po’ di tempo fa Donato ha lanciato PORTRAIT, un video di 2 minuti e 51 secondi – oggi sui social sarebbe la lunghezza percepita del film Titanic. Il video stesso in apertura si definisce “a slow and surreal video slideshow of nightmarish, grotesque and apparently static characters”. Usa due delle parole nemiche del contemporaneo: statico e lento. Ci domandiamo se questo abbia un impatto sul lavoro artistico e chiediamo a Donato che peso può mai avere la lentezza nel lavoro di un artista che, oggi, nel bene o nel male, deve confrontarsi con le piattaforme digitali per procacciarsi un lavoro. “Ancora troppo poco. Vorrei che fosse più presente la capacità di essere un lenti. La lentezza ti fa ragionare, ti fa sognare. La velocità, l’instantantaneità è più per l’occhio, la lentezza è per la mente. Finora ho lavorato per l’occhio, adesso vorrei iniziare a lavorare più con la mente”.
E chissà cosa potrà mai produrre la mente di Donato Sansone, da qui al prossimo futuro.
Però adesso è arrivato il momento di parlare dell’elefante nella stanza: il sesso. Il divertimento, le scopate, il desiderio. Quelle cose, lì insomma. Sconcezze, signora mia!
Il sesso vende ancora?
Sansone, un po’ come il suo corrispettivo biblico, è un esploratore di mondi in questo. E allora lo domandiamo a lui, la poniamo a lui una delle grandi domande della pubblicità contemporanea: le scopate vendono ancora? Il sesso interessa ancora a qualcuno?
Ridendo ci dice “sì, vende tantissimo, ma interessa sempre di meno, per paradosso. Tutti ne parlano, quasi più nessuno lo fa”. Ma alla richiesta di spiegarci come mai affermi questo, è candido e ingenuo come un bambino nel dirci “ho difficoltà a rispondere”.
“Io ho 50 anni” dice “appartengo a una generazione di un certo tipo, che percepisce il sesso in modo diverso da come lo vedono i più giovani. Ora le persone non si notano tra loro in quel modo. Sono assuefatte da tutti gli input che c’hanno oggi, soprattutto sui social. C’è meno consapevolezza di cosa significa il desiderio sessuale, cosa significa approcciarsi, cosa significa sedurre. Senza essere volgari, o peggio. A me il sesso sembra molto presente nella comunicazione di oggi, ma latente, in modo ipocrita. Cioè, vi faccio vedere una cosa”.
“Un po’ di tempo fa, giocando un po’ col cellulare, un Samsung, volevo esplorare lo zoom. Ed è finita che ho fatto una finta pubblicità, che però è diventata virale sui social.Tre milioni di visualizzazioni, non so nemmeno quanti like”.
Nel video che ci mostra Donato si vede un’inquadratura presa dal Monte dei Cappuccini di Torino verso il centro città. Si inquadra un palazzo e con lo zoom – potentissimo, peraltro – scopriamo che in una stanza, con tanto di finestra spalancata all’ultimo piano, c’è una coppia (irriconoscibile in volto e nel corpo) che scopa dentro casa, allegramente. Il video si chiude con il logo Samsung Galaxy. Sembra effettivamente uno spot, uno di quelli capaci di essere ricordati. Quel contenuto, per chi voglia vederlo, è ancora sul profilo di Donato Sansone.
“Allora, ho provato a proporlo alla Samsung” ci racconta “perché effettivamente ti vende bene la funzione del cellulare, lo zoom, in modo immediato, originale e memorizzabile. E non l’hanno voluta. Non mi hanno proprio risposto”.
Può piacere o non piacere quel video, ma come minimo è capace di emergere in modo non convenzionale. In un panorama pubblicitario piatto e tutto uguale, in cui a tratti è difficile distinguere un brand da un altro, come minimo è qualcosa.
Troppi soldi
Alla fine, dopo aver celebrato il funerale della creatività contemporanea, chiediamo a Donato se, in chiusura, c’è qualcosa che vuole dirci e che non gli abbiamo chiesto. Qualcosa che da nessun’altra parte gli sarebbe consentito dire perché non sta bene. Ecco questo è lo spazio per dire qualcosa sul rapporto tra arte e pubblicità.
Ci pensa un po’, ci guarda stranito, ma evidentemente il pensiero gli fluttuava nei meandri della mente già da un po’ perché ci mette pochi secondi a risponderci con una verità illuminante, nascosta in piena vista.
“Si spendono troppi soldi. Non fraintendetemi: non in generale, si spendono troppi soldi per creare formati standard, tutti uguali. Vedo poca creatività nella pubblicità. Da parte degli artisti e dei creativi. Tutto è molto leccato e pulito, si cerca di accontentare le persone anziché disturbarle, farle stare scomode. La gente si è stancata dell’immagine, perché abbiamo tanti di quegli input… Vediamo così tante cose che non ci sorprende più niente. E la pubblicità, poverina, rientra in questo. Manca la creatività di fare cose sorprendenti e genuine. Si spende tanto per accontentare la gente e non per colpirla. Non ci sono più campagne pubblicitarie memorabili”.
In effetti, ci viene da dire, non ci sarà mai più brava, Giovanna, brava. Oppure pennello grande, grande pennello. Ma è pur vero che un tempo con razzismo, sessismo, omofobia era decisamente più semplice: la prima battuta che ti veniva la buttavi fuori senza farti altre mille domande. Fare i creativi ai danni degli altri è facile. Ora i limiti sono molti di più, ma questa volta in senso positivo.
Certo che brava, Giovanna, brava diventa una scena iconica perché espone un pezzo di carne, non una donna. Ora bisogna essere capaci di fare qualcosa di iconico senza ricorrere all’insulto di qualcuno, che sia più difficile. Ma è un bel difficile.
Abbiamo quasi finito, ma Donato ci tiene a dirci un’ultima cosa che, si vede, ha bisogno di sputar fuori. “Prima non volevo accusare i creativi, i pubblicitari, non sono loro a essere poco creativi. Volevo attaccare quelli che li spingono a fare quelle cose tutte uguali, i brand. Quelli che mettono i soldi. E vogliono sempre stare al sicuro”.
Possiamo dire: che sciocchi i brand che preferiscono stare al sicuro anziché avventurarsi. Che gran cazzotto in faccia, quando succede.
