CHE SIMPATICI CATTIVONI

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Teorie, filosofie e la cosa più importante di tutte: i soldi

217.000 follower su Instagram (per ora) – in epoca di social per prendere un po’ di reputazione è bene contarsi. Il loro logo è un cerchio rosa, blu e nero. I loro video sono iconici e apprezzati dal pubblico – anche perché hanno iniziato a fare video podcast quando in giro non c’erano ancora né muschi né selvaggi – copioni. 

Si definiscono una gang di desain. Parlano didesain in modo facile. Fanno un desain che fa discutere. Partecipano a eventi in giro per l’Italia, le Università li chiamano per assegnare premi agli studenti.

Insomma, quando abbiamo incontrato i ragazzi di Caffè Design avevamo un po’ di timore – per via dei numeri – e un po’ di strizza – perché loro il mestiere del designer lo sanno fare e lo sanno raccontare bene. Nemmeno ci aspettavamo che ci rispondessero e che apprezzassero il progetto, rilasciando un’intervista. E invece ci siamo incontrati.

Milano M4

Ci vediamo a Milano, dove hanno il loro ufficio, in una zona che segna la nuova frontiera della gentrificazione perché proprio davanti a una delle fermate della nuovissima e brillantissima metro M4. All’inizio, però, ci siamo persi. Non vedevamo il loro nome sul campanello. Poi, dalla vetrina di un sottoscala, notiamo dei colori familiari: rosa, blu e nero. E la scritta caffè.

Eccoci qua: li abbiamo trovati in un seminterrato di Milano. Prima lezione: quando sei bravo a raccontare storie, puoi far diventare tutto un sogno.

Ad accoglierci è Giuliano, occhiali da vista con montatura scura e cappellino, che con accento della provincia di Brindisi dalle “o” molto chiuse ci offre un caffè, com’è d’obbligo. Un paio di colleghi sono al tavolo accanto a lavorare e finire call. Una chiacchiera tira l’altra, il caffè finisce e Giuliano è bravissimo nel farci sentire subito accolti. Si passa da 217.000 follower all’umanità in un istante.

Lo spazio è piccolo, tinteggiato con i colori del brand. Poltrone e sedie ovunque, vecchie casse stampate in 3D che usiamo come sedie, statuette sacre colorate di rosa con il casco di C3P8 (Star Wars, ndr). Giuliano stesso ammette “qui ci metto tutta la roba che mi piace e che non posso portare a casa dalla mia ragazza”. Meglio così: fa diventare l’ufficio un ammasso di creatività.

Arriva Nanni, l’altro founder di Caffè Design, anche lui cappellino ma accento napoletano e barba lunga. Ci accomodiamo. E registriamo.

Iniziamo con una domandina facile facile: ma il designer è un mestiere che si è proletarizzato? Che sarebbe come iniziare uno spettacolo di stand-up comedy con la conta dei morti dell’anno. Una verve incontenibile.

Soldi

“Allora” parte Giuliano “mi ha sempre dato fastidio questa sorta di vittimismo da parte di alcuni designer. Che è un fenomeno che ha le sue radici in un umorismo che non fa più ridere”.

Nanni, però, ci ricorda che siamo pur sempre in Italia: “secondo me è una questione di soldi. Perché il nostro è un mestiere in cui la forbice di guadagno va dal precario al miliardario. Tutti entrano nello spettro creativo: Karim Rashid (designer industriale, ndr) è creativo tanto quanto il ragazzo che lavora nella tipografia. Entrambi sentono di fare un lavoro creativo ma il guadagno è diverso”.

Alla fine ci ritroviamo sempre a parlare di prezzi, guadagni e soldi. Qui seguono battute e risate che un po’ potrebbero coprire il suono del messaggio della banca che dice che abbiamo raggiunto il plafond: è solo il 21 del mese e i nostri soldi sono già finiti, come cantava qualcuno.

“Eh sì” insiste Nanni “è una delle cose fondamentali di questo lavoro: il guadagno. Non si può dire solo che è un lavoro creativo e bello”. Mica viviamo di gloria.

La domanda a questo punto sorge spontanea: com’è che non riusciamo a farci pagare abbastanza, noi pubblicitari?

Giuliano, che a quanto pare ha l’argomento molto a cuore, si scalda “il problema secondo me è culturale, però questo è vero per molti mestieri. Per esempio, a quello che si apre la pizzeria a Cisternino (provincia di Brindisi, ndr) sono io a dover spiegare perché quello che sto facendo come designer per lui ha valore, non posso aspettarmi che lui lo sappia. Quindi magari il problema è che, a volte, il comparto creativo non sa vendere il proprio lavoro ed elevarlo a quello che è. Quella spiegazione [quel racconto del lavoro] vale il prezzo. Per quello prima parlavo di vittimismo”.

Di base, quindi, noi pubblicitari ce la tiriamo anche un po’. Ma ecco che di nuovo Nanni ci riporta alle questioni serie. “A parte la cultura, la questione è il prezzo”. Aridaje. “Facciamo l’esempio dell’alimentare, dove siamo noi i consumatori: vai in due macellerie diverse a cercare una fiorentina, nella prima costa un euro al chilo, nella seconda cinquanta. Ti fai delle domande sul perché”. 

Allora, ok, è una questione di racconto. Nel senso di saper spiegare il perché di certe scelte creative e, anche, di certi prezzi.

Slow design

Chiacchierando – mentre uno strano rumore simile a quello di una lavatrice ci giunge alle orecchie da un’altra stanza nascosta del seminterrato – ci viene in mente che dovremmo fare come slow food e tutte quelle iniziative come fiere e convention aperte ai consumatori in cui si racconta tutta la filiera alimentare. Mostrando la lavorazione che c’è dietro, il prodotto acquista valore e, quindi, può essere venduto a un prezzo maggiore. Perché non fare lo stesso con la comunicazione e la pubblicità?

Ma a riportarci alla realtà rispetto alle nostre ambizioni gloriose di raccontare il mondo della pubblicità per valorizzare il nostro lavoro arriva Giuliano: “ma scusate, alla gente che cazzo gliene frega? Perché dovrebbe interessare?”

Alcuni di noi tre founder di SPOT si sono sentiti come quando hanno presentato il primo progetto creativo al capo, quello a cui hanno lavorato per giorni, pure di notte, e quello ha risposto solo “no”.

“A me per esempio di quello che fa il dentista non me ne frega niente, magari penso che costi troppo, poi però mi affido” dice Giuliano, ricordandoci sempre che, per quanto creativi, il nostro è pur sempre un mestiere. Un tanto al chilo.

Però, aspettate, diciamo noi con petto gonfio di indignazione, per un’azienda è essenziale l’identità visiva e la comunicazione, per esempio, del logo. Allora dovrebbe valorizzarla anche nel prezzo pagato. O no?

Be’, no. “Per me non è essenziale”, dice Giuliano, che nella vita si occupa di contenuti visivi ma sta portando avanti una battaglia personale contro i loghi.

In che senso non è essenziale?

“Utile sì, ma non essenziale. O meglio, ci sono diversi livelli di essenziale. Per esempio, faccio spesso call con start-up che hanno idee magari incredibili, potenzialmente fighissime, che mi vengono a cercare per fare il loro brand prima ancora di aver finalizzato l’idea [imprenditoriale]. Nel loro caso pensare al branding è inutile, sono soldi buttati in quella fase. Per me, e lo dico contro la mia professione, non è sempre essenziale avere un brand. Utile, sì, ma non essenziale”.

A qualcuno piace Content

Mentre il rumore di sottofondo proveniente dall’altra stanza si fa più intenso e sembra sia arrivato il momento della centrifuga dopo il risciacquo, facciamo un’altra domanda: se branding e grafica non sono essenziali per la comunicazione e la pubblicità, allora cosa lo è?

“Avere qualcosa da dire”, risponde Nanni di getto.

“Un punto di vista, una visione, un’opinione. Prendere una posizione”. E su questo Giuliano è abbastanza categorico: “cosa mi sta dicendo questo brand rispetto a un altro? Come distinguo, per esempio, il divano di un brand da un altro?”

“Prima ancora di avere l’immagine, il brand deve avere qualcosa da dire e da raccontare. Poi chi se ne frega di com’è declinato visivamente”. Entrambi i desainer, su questo, sono d’accordo.

Qui Nanni si ferma, guarda per terra e dopo un lungo sospiro carico di emozione, dice una profonda verità: “i designer si fanno troppe seghe mentali. Cioè, alla fine” conclude come un Churchill un po’ scocciato “sticazzi”.

92 minuti di applausi.

Chi è il responsabile?

Sticazzi, però, fino a un certo punto. Perché qui arriva la domanda delle domande: il pubblicitario, chi comunica per l’azienda che prende posizione facendo pink-green-rainbow washing è o non è responsabile di quello che comunica? Possiamo dirci complici, forse?

Qui, silenzio.

“Domanda difficile” dice Nanni. “A livello filosofico, sì. Uno dovrebbe dire al brand per i miei standard tu non fai abbastanza per convincermi a dire quello che tu vuoi che io dica. Ma io non lo farei”. Ancora per una questione di soldi?

Stavolta no.

“Non lo farei perché quando queste grandi aziende si muovono e raccontano, per esempio, la sostenibilità, costringono anche gli altri a farlo. Quindi l’influenza è positiva”. Ci fermiamo a pensare: in effetti, i criteri ESG nascono come strumenti di competizione sul mercato e solo dopo, col tempo, diventano obblighi normativi.

Se nessuno avesse usato gli ESG – sostenibilità ambientale, sociale ed economica – come pilastri di competitività, non ci saremmo mai arrivati.

“Io non sento di polarizzarmi su questa posizione” dice Nanni. Che in effetti ci fa un esempio un po’ particolare: “Immagina, non so, di essere chiamato a migliorare la UX (user experience, la semplicità di fruizione per l’utente, ndr) di una piattaforma che si occupa di identificare persone in mare. Un esempio, eh. Ecco, quella interfaccia può essere usata in molti modi, per salvare persone che stanno annegando oppure per mandare la Guardia Costiera e cacciarli via. Ma tu stai progettando lo strumento, non la mano che lo userà. Cioè, non è che siamo Oppenheimer, facciamo i designer”.

Certo, l’immagine di Nanni come l’inventore della bomba atomica ci strappa un sorriso. Le conseguenze dell’ingegno e della creatività un po’ meno.

Seconda lezione: vale la pena porsi delle domande, prima di mettersi a lavorare a un’idea nuova.

Ma allora di chi è la responsabilità? Perché il pinkwashing esiste. Come il rainbow washing. Come il greenwashing. E se non noi, chi è responsabile di questo mondo al collasso?

“L’azienda” dice Giuliano “perché quando l’azienda arriva dal creativo ha già deciso di fare una certa cosa, mentire o dire la verità. Quello che io [designer] faccio è assecondarla”.

E poi, aggiungiamo noi, c’è una cosa da non sottovalutare: se non lo faccio io quel lavoro, ci sono altri mille creativi e pubblicitari pronti a prendere il mio posto. E le bollette, si sa, non si pagano con l’etica.

La soluzione è la lavanderia

Il cellulare di Giuliano vibra accanto a lui e lo schermo si accende: ci sono molte notifiche perché uno dei colleghi all’altro tavolo, mentre noi facevamo l’intervista, ha caricato un nuovo contenuto sulla pagina Instagram di Caffè Design. A giudicare dal numero di notifiche sul cellulare di Giuliano, sta piacendo agli utenti.

“Ma poi tutta ‘sta registrazione chi se la sbobina?” domanda Nanni, facendoci notare che è da quasi due ore che parliamo e tutta la roba di cui abbiamo discusso non entrerà mai in un articolo. Non c’è abbastanza spazio per le riflessioni sulla comunicazione politica o sulla super digitalizzazione o ancora sulla incapacità della nostra generazione di produrre oggetti artigianali e tanto altro. Tutte cose che resteranno in una registrazione non sbobinata.

È ora di andare, quindi. Ma una domanda resta ancora inevasa: “ragazzi, ma che è ‘sto rumore dall’altra stanza, sembra ‘na lavatrice”, diciamo.

Nanni e Giuliano ridono “no, va bene tutto ma non è che per campare ci mettiamo pure a fare la lavanderia a gettoni. È la stampante 3D. Dobbiamo consegnare un premio in università”. E la cosa bella, ci dicono, è che costa meno la stampa di un design in 3D della scatola che lo conterrà. “Eh sì” dice Nanni “perché ci servono solo quattordici pezzi non standard ma personalizzati. Ok tutto ma sono dei cazzo di cartoni tagliati e piegati, non ci vuole la NASA. Eppure ci arrivano preventivi da 150 euro a cartone”. Un designer come noi, non come Karim Rashid, in media, guadagna meno di 150 euro l’ora.

Usciamo dal bellissimo ufficio-scantinato di Caffè Design – in cui sarebbe un sogno lavorare. A Milano il sole se n’è andato.

È stato stupendo prendersi due ore in cui parlare di creatività, teorie e filosofie, ma ora tocca correre per prendere un treno. L’ultimo Regionale Veloce Milano-Torino. Più di quella cifra non possiamo spendere. Altri soldi, non ce ne sono.

Terza lezione: in effetti non male questa idea della lavanderia a gettoni per tirar su dei soldi…

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