L’editoria è in crisi. Nessuno legge più. Il libro è un oggetto noioso e le case editrici, per stare a galla, sono costrette a stampare, stampare, stampare roba che non leggerà mai nessuno. Oppure robaccia. Chi ci guadagna davvero è la distribuzione, non la casa editrice, non il lettore – per carità – non il libraio.
Detto ciò, punto e a capo.
Questo è lo spazio più difficile di questo numero. SPOT nasce come una rivista di cultura pubblicitaria e di comunicazione. Quando parliamo di pubblicità ci viene in mente sempre qualcuno che vuole venderci una scatoletta di tonno in un supermercato. E quindi ci sembra qualcosa di tutto sommato innocuo. Ma quando, invece, la pubblicità serve a venderci un’idea, cosa succede? Quando proviamo a vendere cultura – chissà che significa “cultura” – che accade? Come si vende un oggetto che più che risposte vuole porci delle domande? Come si vende un oggetto che dice all’acquirente comprami, ti farò venire un sacco di dubbi?
In breve, che cos’è un libro e come si vende? Ma soprattutto: non è che, per caso, a furia di allenarci a vendere scatolette di tonno, iniziamo a trattare anche i libri come oggetti da banco del supermercato?
Questo è lo spazio più difficile di questo numero della rivista. Per questo non abbiamo scelto gente pettinata per rispondere a queste domande ma dei corsari, quelli che sono stati definiti i “partigiani dell’editoria italiana”. Abbiamo chiamato una piccola casa editrice che non solo si è messa in testa di fare il lavoro più difficile del mondo – guadagnare vendendo libri – ma ha scelto di farlo partendo da una regione del sud Italia, l’Abruzzo.
Eccola: benvenuta, Neo. Edizioni.
Fissiamo la nostra intervista qualche giorno prima dell’apertura del più grande supermercato di libri d’Italia, il Salone del Libro di Torino 2025. La Neo. è presa dalla preparazione e dalla partenza, quindi decidiamo di fare una call e poi ci ripromettiamo di vederci al Salone, per dare corpo a quelle facce che per ora possiamo vedere solo a schermo.
E sullo schermo, quel giorno dei primi di maggio, davanti a noi ci sono Alex Piovan e Francesco Coscioni. La prima cosa che notiamo è un dettaglio, piccolo eppure il più importante: Alex ha indosso una t-shirt. Sul bianco della maglia, una scritta nera, “fastidi”. Ecco, questo è il nostro punto di partenza: essere fastidiosi, per far emergere quello che altrove è più difficile dire.
Iniziamo.
Togliamoci dall’impiccio. Presentatevi a modo vostro, in modo corsaro.
Alex: La Neo nasce nel 2008 e la prima scelta corsara è quella di mettere la sede a Castel di Sangro (provincia dell’Aquila, ndr), quindi fuori dai centri della cultura italiana, fuori dalle grandi città. Ed è una scelta-manifesto: vogliamo proporre altro e ci ubichiamo altrove. E poi il nome: il neo può essere una difformità sull’epidermide del panorama editoriale italiano, qualcosa di inatteso che in qualche modo increspa una superficie altrimenti uguale a se stessa. Però può anche essere un simbolo di bellezza e riconoscibilità – pensa al neo di Marilyn Monroe – oppure una malattia, qualcosa di pericolosissimo. E questo è ciò che cerchiamo nei libri: qualcosa di riconoscibile perché diverso da ciò che ci sembra andare per la maggiore e che quindi può stupire per una bellezza inattesa o per un pericolo. Può mettere scomodi.
Voi scegliete un’idea di imperfezione rispetto al panorama circostante. Ma perché, è poi così tutta uguale e conforme l’editoria italiana?
Alex: ovviamente no, anzi. Ci sono tante realtà editoriali, grandi e piccole, che stimiamo molto. Ci sembra però che spesso ciò che ottiene più attenzione e viene messo più in risalto sia la riproposizione di qualcosa di già visto, e quindi conosciuto, innocuo, solo fintamente scomodo. Quindi non è che tutto ciò che è fuori dalla Neo. è uguale a se stesso, figuriamoci. Anche se si tende spesso a esagerare coi toni apocalittici e le sentenze semplicistiche, la verità è che c’è parecchia roba di qualità in giro: ma bisogna saperla cercare. Il problema è piuttosto che spesso ciò che si colloca davvero al di fuori del perimetro del già visto fatica a ottenere la risonanza che meriterebbe.
Si sente spesso dire che oggi ci sono delle regole da rispettare “per vendere”. Per esempio, si dice che un romanzo deve avere una lingua facilmente accessibile per essere venduto; il Neo. propone una cosa diversa. Ci dev’essere una determinata trama che segue determinate regole narrative; il Neo. propone qualcosa di diverso. Un romanzo deve avere per forza un messaggio, una morale; il Neo. è diverso. Queste supposte regole sono ciò che spesso determina la selezione di ciò che viene pubblicato, promosso, venduto: ecco, a noi questo non interessa. Rifuggendo la retorica del siamo diversi dagli altri, a noi interessa portare avanti qualcosa di diverso.
In pratica oggi si vende qualcosa di già venduto. Sembra tutto uguale a se stesso. Che noia.
Ma a questo punto, abbiamo una domanda: il manoscritto su cui la casa editrice lavora dovrà prima o poi essere venduto sul mercato e comprato. Dunque, dovrà essere appetibile e piacere. Quanto pesa questa idea nella lavorazione del testo, nell’editing?
Francesco: per quanto ci riguarda, poco. Perché – e siamo presuntuosi in questo – siamo noi il pubblico di riferimento. Negli anni ci siamo costruiti un pubblico di lettori che ci segue e ora c’è un’affinità tra noi e i nostri lettori: loro sanno cosa pubblichiamo noi, noi sappiamo cosa piace a loro. Teoricamente, se piace a noi dovrebbe piacere anche ai nostri lettori. Chiaro che facciamo delle valutazioni, ma non rispetto alla vendibilità bensì sul funzionamento del romanzo, su come agisce nel coinvolgimento della lettura da parte del nostro pubblico di riferimento.
Quindi qui si lavora sul contenuto, il mercato non c’è ancora. Ma terminato l’editing, entrano in gioco altri attori: scelta della linea, della copertina, quarta di copertina. Cosa succede a quel punto?
Francesco: una volta chiuso il libro, dato il visto si stampi, il primo pubblico da convincere e sedurre sono gli agenti che fanno parte della promozione, ovvero quelli che prendono in carico la scheda di presentazione del libro e vanno nelle librerie a proporlo, per convincere i librai a ordinare delle copie. Quindi qui entra il mercato: quando si fa la scheda editoriale – che ancora non arriva al lettore ma resta all’interno della filiera editoriale- valutiamo gli elementi che possono interessare ai librai e che questi possono usare per proporlo al lettore per l’acquisto. Parole chiave, semplicità, frasi rappresentative, elementi distintivi del libro: qui si è molto commerciali, è qualcosa che deve essere comunicato velocemente.
Nel momento in cui accade questo, gli agenti raccolgono gli ordini delle librerie e lo comunicano al distributore, e si hanno le prenotazioni. Allora, per far crescere il numero delle prenotazioni, iniziamo a lavorare lateralmente: cerchiamo di avere delle interviste, delle presentazioni e simili. Questo accade prima dell’uscita del libro.
Ciò di cui parliamo a questo punto non è tanto la vendita quanto la comunicabilità del libro.

Concentriamoci per un momento sulle quarte di copertina oggi: l’impressione che abbiamo è che utilizzino la stessa tecnica di comunicazione di Trump, cioè io la sparo più alta per superare quella già alta del giorno prima. E così a salire, in un crescendo grottesco. Quindi nella maggior parte dei casi si leggono quarte di copertina come “un romanzo necessario” oppure “il libro di una generazione”, “un libro arrivato per restare”. Insomma, nell’editoria contemporanea tutti i libri vengono venduti come se fossero La paga del sabato di Fenoglio e poi, nella maggior parte dei casi, si rivelano come Amioe. Il manuale del cörsivoe di Elisa Esposito (ringraziamo Mondadori Electa, 2022).
Più si spara in alto, però, più il contenuto del libro potrebbe rivelarsi deludente (spesso) e il lettore non ci crede più.
Francesco: la quarta di copertina è diversa dalla scheda editoriale. Noi non cerchiamo di essere definitivi, ma è ovvio che un po’ di forza va data alla quarta di copertina. Noi cerchiamo di lavorare soprattutto sulle suggestioni, quindi cerchiamo di dare un’idea accattivante ma evitiamo di dire che è un capolavoro che resterà per sempre, una pietra miliare.
Va da sé che la spinta della quarta di copertina dev’esserci, non puoi fare una sinossi devitalizzata e sottotono, fredda. Dev’essere molto calda ma questo calore cerchiamo di trasmetterlo su altre linee che non siano quelle dello strillo.
Come si vende un libro senza strillare?
Francesco: cerchiamo di individuare un elemento che offra al lettore un punto di riferimento. Facciamo un esempio: il prossimo romanzo che pubblicheremo, GAP – Grottesco Adolescenziale Periferico (Placido Di Stefano, 2025, ndr) ha come protagonista un adolescente, un ragazzo di sedici anni della periferia di Milano. Abbiamo cercato di indirizzare la comunicazione sulla questione di cosa significhi essere adolescenti oggi, guardando anche a una serie tv del momento che è andata molto bene, Adolescence (su Netflix dal 2025, ndr). La domanda che ci siamo posti è: perché questa serie tv è andata così bene? La risposta che ci siamo dati è: perché gli adulti con figli ci hanno trovato una risposta a un mondo che gli sta sfuggendo. Noi conosciamo poco i nostri adolescenti, ci sono mondi oscuri a cui non riusciamo ad arrivare.
Ora, in questa quarta di copertina [quella di GAP] non abbiamo citato la serie tv ma l’abbiamo raccontato come un romanzo che mostra la zona oscura dell’adolescenza che sfugge agli adulti, come fa la serie, evitando le formule assolute come il romanzo di una generazione.
Il vostro è un metodo di lavoro leale, soprattutto nei confronti dei lettori (i consumatori finali). Quanto, sul mercato e nell’industria editoriale, pensate sia diffuso questo vostro metodo di lavoro? Gli altri fanno ragionamenti diversi rispetto a questo?
Francesco: dipende se sei una grande casa editrice o una piccola casa editrice indipendente. In questo secondo caso, per i meccanismi di mercato, conviene differenziarsi.
Facciamo l’esempio delle librerie fisiche che è più facile. Se ho una libreria indipendente a 400 metri di distanza da una Feltrinelli, da una Mondadori o da una Giunti e propongo gli stessi titoli che anche loro propongono a scaffale, perdo. Devo proporre editori e libri poco conosciuti, che non arrivano in tv o sui giornali. Il rischio è che ne venderò pochi e dovrò chiudere. Ma può anche essere che ne venderò abbastanza diventando un punto di riferimento per dei lettori corsari.
Certo, è naturale che in case editrici infinitamente più grandi di noi ci siano anche altri ragionamenti, entrino in gioco altri meccanismi. Meccanismi, diciamo così, più “algoritmici”. E quindi vai a inseguire il lettore che già conosci e vendi libri già venduti, perché sei che funzionano. Noi non rientriamo in questi meccanismi perché non possiamo. Per questioni di necessità e sopravvivenza dobbiamo lavorare in un modo diverso. Ma non credo proprio che siamo gli unici.
Posto che l’editoria non è messa benissimo in termini di vendite, oggi il mercato si regge sui lettori forti (persone che leggono almeno un libro al mese), che però sono pochi.
Visti questi risultati, possiamo dire che la strategia del mercato editoriale di oggi non sia proprio così di successo. C’è qualcosa che non va. È l’editoria il problema o altro? Se qualcuno sceglie, con le risorse scarse, di non comprare un libro e di dare precedenza ad altri acquisti, di chi è la colpa?
(Alex e Francesco ridono)
Francesco: il mercato editoriale sbaglia. Il numero dei lettori diminuisce ma aumentano le novità pubblicate. I lettori, che sono sempre quelli e sono pochi, davanti a migliaia di novità mensili, si trovano in difficoltà. Perché ogni uscita attacca sempre lo stesso target, lo stesso lettore, che non sa più dove girarsi. Come se fosse una mela a cui vengono dati mille morsi e alla fine non ce la fa più.

Voi in questo momento non avete la forza di fare il mercato. Altre case editrici, le grandi, invece sì. C’è una parola che noi stiamo sottoponendo a tutti coloro che abbiamo scelto di incontrare ed è responsabilità. C’è un senso di responsabilità da parte degli editori?
Alex: sono dinamiche talmente complesse… noi di Neo. dobbiamo fare di necessità virtù, e quindi determinate scelte e approcci ce li abbiamo perché, al di là di ogni paraculismo, è tutto ciò che possiamo fare. Noi non occupiamo decine di scaffali nelle librerie di catena, quindi siamo obbligati a trovare altri canali e muoverci in modo diverso.
Provando a uscire dalla nostra dimensione, credo sia giusto avere un certo senso di responsabilità. Ma è anche vero che si tratta di dinamiche talmente complicate che è difficile dare dei giudizi netti: ogni soluzione facile rischia di essere semplicistica. Certo è che, come dicevi tu, oltre a seguirlo il mercato lo si fa, e per evitare che la bolla scoppi, oggi, secondo noi è importante ricordarlo, dando il giusto spazio alla qualità e alle idee nuove e non solo al già visto e ai trend del momento. Questo è un discorso commerciale, ma anche di responsabilità.
Francesco: l’editoria è un business. Ed è il mercato più oligopolistico che esista in Italia perché c’è una concentrazione di potere elevatissima, e parlo del vertice dei gruppi editoriali. Questi editori sono anche distributori e hanno le loro catene librarie.
Facciamo l’esempio del food, della GDO (grande distribuzione organizzata). Noi abbiamo i grandi supermercati, ma in Italia sono un po’ a macchia: nord Italia, Esselunga; centro, Coop; magari il centro sud è più ramificato, ci sono più attori. Qual è il punto? Per quanto l’Esselunga abbia i prodotti del proprio marchio, non può reggersi solo su questi e quindi propone anche una varietà di altri marchi. Quindi anche nella GDO quando ci sono dei colossi c’è comunque una diversificazione molto maggiore rispetto a quello che vediamo nel mondo editoriale. Già questa è la prima stortura. E sono loro che fanno il mercato. Dico proprio fisicamente.
Solo che a loro [i grandi editori] non interessa avere un senso di responsabilità. Non può essere una responsabilità, questa, che grava sulle spalle dei piccoli editori. Dovrebbe essere una responsabilità dei grossi gruppi editoriali, e a una responsabilità a livello governativo.
Prendi Mondadori, per esempio: ha come obiettivo primario il profitto. E questo è normale: ogni azienda, per continuare a esistere, deve fare i conti col proprio bilancio. Ma se il peso che ha il profitto nelle scelte aziendali schiaccia tutto il resto, è difficile che entri in gioco la responsabilità. Mondadori non deve dar conto ai propri lettori, impone le proprie scelte ai lettori. Perché non li conosce nemmeno, e si rivolge a un target talmente ampio… Ed è naturale che sia così. Per noi non è così, noi siamo tenuti a conoscere i nostri lettori e proprio perché li conosciamo inevitabilmente siamo tenuti a essere responsabili nei loro confronti.
Noi sappiamo precisamente qual è il tipo di lettore a cui potrà andare un libro che pubblichiamo.
Alle volte abbiamo l’impressione che ci siano case editrici che vendono libri come scatolette di tonno sullo scaffale di un supermercato. È una visione sbagliata e severa questa?
Francesco: (ride) la provocazione potrebbe starci. L’impressione è che per certi libri ed editori il ragionamento dietro sia di questo tipo.
Facciamo un esempio esplicito, se volete. Tempo fa Mondadori ha pubblicato un libro di un autore che conosciamo bene, Stefano Sgambati. Il romanzo si intitola I divoratori (2020). È il racconto di una cena in un famoso ristorante di Milano. Al centro del racconto c’è una coppia famosa di Hollywood. Ma non sono loro i protagonisti, la storia si allarga a tutti i commensali.
Ora, che accade. Accade che Mondadori, nella quarta di copertina, fa passare I divoratori come un libro su questa coppia di Hollywood – che, nel libro non si dice esplicitamente, ma sono Brad Pitt e Angelina Jolie -, come se tutto ruotasse attorno alla loro cena. Il lettore che prende questo libro perché, partendo dalla quarta di copertina, pensa si tratti di un libro su Pitt e Jolie, si trova in difficoltà. Il libro è difficile: non c’è una trama particolare, la scrittura è molto raffinata, insomma ci vuole un lettore forte per apprezzare questo romanzo. E invece Mondadori, per come l’ha venduto, l’ha fatto arrivare ai lettori sbagliati.
La nostra impressione è che il libro non abbia circolato quanto meritava. Certo, è uscito nell’anno del covid, ma con quella copertina, quella quarta e quella comunicazione, non è arrivato ai lettori giusti, e allora lì sì, lì si può dire: hanno venduto un libro come una scatoletta di tonno.
Alex: ed è un peccato perché il libro è bellissimo, davvero. Questo è un esempio di come le cose fighe escano in tutte le case editrici: le cose molto belle, secondo me, trovano spazio, a ogni livello e in ogni modo. Però devi saperle comunicare e vendere. E in questo caso verrebbe da chiedersi cosa si è inceppato, cosa si sarebbe potuto fare di diverso.
Parliamo di canali di comunicazione e vendita, a questo punto. Online (pagine social, per esempio) e offline (fiere, eventi, presentazioni). Cos’è che funziona?
Alex: è un casino. Una cosa per noi importante è la capacità di disintermediare, cioè di arrivare direttamente al lettore. Sono io, Neo., che parlo a te potenziale lettore. Indipendentemente dal canale, evito l’intermediario.
Questo perché è sempre più difficile ottenere spazi dove ci sono degli intermediari – come le librerie di catena, per esempio, ma anche negli inserti culturali, nei festival… E quando parliamo delle librerie non parliamo di esserci e basta, ma proprio di volume fisico, metrature di scaffale.
Come i supermercati.
Alex: esatto, proprio così. Altro canale in cui oggi è sempre più difficile entrare sono i premi. Quando la Neo. è nata, c’erano dei premi a cui partecipavano solo piccoli e medi editori, ed era più facile farsi recensire su giornali nazionali. Probabilmente, per la restrizione del mercato che stiamo vivendo oggi, i pesci grossi iniziano ad arrivare anche nei laghi piccoli e attaccano anche premi o giornali che prima erano il bacino delle piccole case editrici. Quindi per noi diventa sempre più difficile perché abbiamo meno spazio.
Ecco perché oggi è più importante avere un contatto diretto con il lettore o con la libreria indipendente.
Quindi più che un tipo specifico di canale, quello che funziona è un metodo, che è quello della disintermediazione.
Più parlate, per esempio, di disintermediazione più ci rendiamo conto che le dinamiche sono identiche al marketing politico in cui spesso il politico, anziché presentarsi ai colleghi parlamentari a rendere conto dei propri comportamenti, fa una diretta su Instagram con i propri follower a cui racconta ciò che vuole. Cambia ciò che si vende, ma la tecnica di comunicazione pubblicitaria è identica.
Francesco: qui torna il tema della responsabilità. Che non è un fatto di morale, ma di rispetto nei confronti del lettore – che per noi è il consumatore finale.
Al di là del prodotto culturale in sé, il fatto del libro è questo: come per la scatoletta di tonno, tu paghi e compri qualcosa. Ma mentre la scatoletta devi mangiarla perché devi soddisfare un bisogno primario a cui in ogni caso devi dedicare del tempo nella tua vita, nel caso della lettura parliamo di un ritaglio di tempo per appassionati. Tu hai uno spazio che devi rosicchiare alla vita. Il lettore è uno che ha deciso di dedicare quel tempo a quell’attività.
Nel caso del libro il lettore è dipendente dalle scelte di altri, di chi ha lavorato al libro: se inizia a leggere qualcosa per cui ha dovuto spostare degli impegni per ritagliarsi il tempo da dedicargli e poi è deluso, il libro non gli piace, a quel punto che fa? Lo finisce? Magari no, però l’ha pagato 15 euro. E quindi in ogni caso ci rimane male. Così, magari, la volta dopo ci penserà due volte a comprare un libro. Questo è il senso di responsabilità. Ed è una responsabilità condivisa anche con altri attori, oltre alla casa editrice, come ad esempio i librai.

Quando noi, da pubblicitari, dobbiamo vendere un prodotto diciamo una cosa semplice: soddisfa un certo bisogno, esaudisce un certo desiderio. Se lo compri, stai più comodo. Questa è la chiave dell’acquisto. Nel caso dei libri, no, il libro è costruito per metterti scomodo: è difficile vendere una cosa che ti mette in testa un sacco di dubbi e ti pungola.
Alex: noi puntiamo molto su questo e forse è in controtendenza rispetto alla vendita dei libri di oggi. La fatica sta nell’intercettare i lettori che vogliono, come dici tu, stare scomodi, e noi proviamo paradossalmente a soddisfare quel desiderio. Eppure in molti sembrano andare in una direzione diversa, quindi forse siamo noi a essere poco furbi: per dire, quanto spesso nelle campagne pubblicitarie di librerie e grandi gruppi editoriali si sente dire c’è una meta precisa a cui arrivare leggendo un libro, una risposta definitiva, monolitica, una qualche forma di perfezionamento morale? Ti dicono: leggi con questo obiettivo specifico. Noi in Neo. non facciamo così.
Dopo questa chiacchierata, siamo passati allo stand della Neo. Edizioni al Salone del Libro 2025 per vedere dal vivo Francesco e Alex. Oltre ad aver sorseggiato felicemente un liquore dalla ricetta segreta preparato dalla madre di Francesco Coscioni – buonissima, ma ci stiamo ancora riprendendo – abbiamo incontrato lì allo stand anche Stefano Sgambati, una bella coincidenza, e poi siamo andati un po’ in giro a sondare il terreno e conoscere meglio questo mercato.
Siamo stati travolti da una montagna vera di libri – qualcuno li potrà mai leggere in una vita sola tutti quei libri? – dalla valanga di gente venuta da ogni dove in Italia a presentare i propri lavori, dallo tsunami dell’ego di editori e scrittori che pensano che il Salone del Libro svolterà loro la vita.
E mentre sorseggiavamo il liquore di mamma Coscioni allo stand della Neo. Edizioni, ci siamo posti una domanda: lo sanno tutti loro, editori, agenti, lettori e pubblica amministrazione, di navigare a vista nelle vicinanze di una bolla che sta per scoppiare?
Non sono passati poi così tanti anni dal 2008 e dall’iconica scena dei dipendenti della Lehman Brothers che escono con le scatole in mano dalla loro sede di New York, ormai fallita e morta.
Troppo autocompiacimento, ai tempi, per Lehman Brothers. Troppi pochi fastidi da affrontare e gestire sul momento, prima che scoppiassero, ai tempi.
E dopo tutti questi anni, ci domandiamo: quando abbiamo intenzione di affrontare le questioni fastidiose prima che ci scoppino in faccia?