BRAVI, PULITI E STRATEGICI

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Quello che avete letto è il risultato di due tensioni, anch’esse contrapposte ma solo in apparenza: da una parte, l’urgenza di giustificarsi; dall’altra, il piacere di crogiolarsi nella colpa.

C’è chi dice che la pubblicità segue, c’è chi dice che guida. Ma forse la dicotomia è solo il modo più comodo per spostare l’attenzione dal punto reale: la pubblicità non è né gregaria né condottiera. È un sistema adattivo, che vive nel mezzo, che si plasma sul linguaggio e sulle abitudini delle persone per poterle comprendere, non per manipolarle. L’idea che la comunicazione sia un potere oscuro e totalizzante è una proiezione narcisistica: un modo per ingigantire il proprio ruolo mentre si finge di rinnegarlo. E sì, anche questa è una forma di storytelling. Più tossico del termine stesso.

Ammettere di essere comunicatori e pubblicitari non è una colpa da espiare. Non si è venduti al consumo solo perché si lavora in un settore che funziona all’interno di un’economia di mercato. Non tutto ciò che è “consumato” è automaticamente nocivo. La cultura non è un pasto spirituale cucinato senza etichetta prezzo: è fatta anch’essa di packaging, promozione, bisogno e mercato. Se tutto è reclamizzabile è perché tutto è raccontabile. Il problema non è il consumo, ma la pigrizia con cui si scambia il consumo per una colpa strutturale. E quella sì, è frustrante.

Il mondo sta scoppiando sotto il peso di molte cose, e la pubblicità non è che una lente, non una causa. Il green-washing non nasce in agenzia, nasce nei board aziendali. L’overtourism non è colpa di una caption su Instagram, ma della mobilità low cost e dell’evasione fiscale degli affitti brevi. I pubblicitari possono vendere fuffa, certo. Ma anche denunciare fuffa. Possono essere complici o testimoni, e talvolta addirittura critici. L’indignazione permanente non li rende migliori. Li rende solo meno lucidi.

Lamentarsi delle condizioni del lavoro creativo come se ciò assolvesse la categoria da ogni responsabilità è una narrativa pigra, autoassolutoria. Essere sottopagati non nobilita, non eleva, non fornisce uno scudo morale. Si può lavorare in un’industria sfruttata e al contempo mettere in discussione la qualità di ciò che si produce. La retorica del “noi poveri copy e grafici con il master” è un’arma a doppio taglio: chi la brandisce per accusare il sistema, finisce spesso per affermarne i peggiori automatismi.

Il pubblicitario, per fortuna, non è solo un sensitivo delle emozioni collettive: è un professionista che opera su dati, ricerche, insight e metodo. Ridurlo a uno stregone che “vernicia” desideri con le arti visive è svilente. Fa comodo dirlo quando si vuole passare da cinici pentiti, ma è una semplificazione tossica quanto lo slogan più trito. Non si vende solo per far sentire meglio. Spesso si racconta per far capire meglio. E no, non sempre il clic è la fine della storia.

Dimentichiamo troppo facilmente che il consumatore non è una vittima. È un soggetto attivo, critico, consapevole. L’idea che “non capisca una ceppa” è l’ultimo rifugio dell’élite disillusa, quella che si auto-ghettizza perché non riesce più a parlare alle persone. Il pubblico non è stupido. È solo stanco. E riconosce la pubblicità fatta bene, così come riconosce quando lo si tratta dall’alto in basso.

Dire che pubblicità e comunicazione sono forme d’arte sottovalutate è sacrosanto. Ma lo sono proprio perché spesso chi le pratica si vergogna di dirlo apertamente. Il problema non è l’opinione degli altri: è lo sguardo che i comunicatori rivolgono a sé stessi. Per difendere il proprio lavoro, occorre prima rispettarlo. E basta con la mitologia della frustrazione. Fare bene comunicazione è un atto serio. Rifiutarne l’impatto perché “tanto ci danno solo millecinquecento euro” è una resa, non una rivolta.

SPOT nasce, secondo chi scrive, da un’ambizione comprensibile ma rischiosa: voler elevare il linguaggio della pubblicità senza sporcarsi troppo le mani con le sue logiche. Peccato che siano proprio quelle logiche a costruire il contesto culturale da cui attingiamo tutti. Non si può voler fare critica radicale e al contempo difendere il prodotto da cui si trae sostentamento. O si accetta la contraddizione e si lavora dentro la macchina, oppure si esce e si fonda qualcos’altro. Ma non si può restare a metà, dicendo che “tanto sarà un fallimento”.

L’odore del ragù è reale, certo. Ma ogni tanto, nella domenica della comunicazione, servirebbe anche qualcuno che dica che forse no, quel ragù non è fatto in casa. E va bene così. Perché non tutto ciò che è autentico è buono, e non tutto ciò che è artificiale è falso. Basta che sia chiaro, diretto, e costruito con rispetto per chi lo guarda.

Per questo, non ci uniamo all’autoflagellazione. Difendiamo la pubblicità che sa raccontare, vendere, divertire e, quando serve, anche educare. Quella fatta da professionisti. Non Brutti, Sporchi e Cattivi, ma Bravi, Puliti e Strategici.

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