L’ARTE DI ESSERE ROTTI

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Bambini, laureati e manager: siamo tutti manipolabili, secondo le neuroscienze

Consumer Neuroscientist, ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche dell’Università di Chieti, dove insegna nel Master in Economia Comportamentale e Neuroscienze del Consumatore.

Ha studiato all’Università di Trento, Harvard e Utrecht. La materia di ricerca per lei è l’analisi dei movimenti oculari, delle espressioni facciali e della conduttanza cutanea, per comprendere meglio il comportamento dei consumatori.

In breve, si può dire che alla Prof.ssa Alessia Dorigoni interessi una cosa su tutte: il modo in cui prendiamo le nostre decisioni. Come consumatori, come cittadini, come persone.

Siamo usciti dal nostro incontro con Dorigoni rendendoci conto di essere un po’ rotti dentro, di avere dei meccanismi in testa che spesso ci remano contro. Eppure, quando dopo l’intervista ci siamo guardati in faccia abbiamo visto anche un grande ottimismo. 

Perché è vero che pubblicità e comunicazione ci invitano a prendere ogni giorno delle decisioni facendo leva su meccanismi biologici e psicologici del nostro cervello, manipolandoci. Ma è anche vero che quei meccanismi possono anche essere utilizzati al contrario, per farci prendere le decisioni giuste, per il nostro benessere e a favore della collettività.

Ma la domanda è: chi decide quali decisioni sono giuste?

In uno dei post LinkedIn della sua rubrica, Neuropop, ha raccontato un metodo di raggiro – chiamiamolo così – che usa per convincere sua figlia a mangiare i broccoli che non le piacciono (a chi piacciono, in fondo?).

Si chiama “decoy effect”, o “effetto esca”. Dopo avercelo spiegato brevemente, vorremmo chiederle: siamo davvero tutti manipolabili come bambini a cui non piacciono i broccoli?

Per rispondere partiamo dall’inizio, da quello che in letteratura si chiama nudging, cioè la spintarella gentile. La teoria verte sull’architettura della scelta, cioè sul fatto che l’ambiente in cui ci troviamo influenzi molto le nostre scelte senza che noi ce ne accorgiamo.

Psicologia del consumatore e behavioural economics oggi hanno dimostrato che il consumatore non è razionale. Quindi si parla di bounded rationality, ovvero di una razionalità limitata dall’ambiente nel quale siamo immersi e che ci influenza.

Per esempio?

Per esempio il modo in cui ci vengono trasmesse le informazioni. Il caso più classico è la comparazione tra due frasi: “il 90% dei sopravvissuti” oppure “il 10% dei morti”. Sto dicendo la stessa cosa, ma le due frasi hanno un peso diverso. Io so, dalle neuroscienze, che le persone tendono ad attribuire più peso all’espressione che sottolinea una perdita (si chiama loss aversion), perché ci spaventa di più. Quindi l’espressione “il 10% dei morti” ha più peso per noi rispetto al “90% dei sopravvissuti”. È la stessa informazione ma il contesto, il framing, con cui mi viene presentata cambia la mia percezione e quindi una mia possibile scelta comportamentale.

Questo cosa c’entra coi broccoli?

Tutto in realtà perché quando io presento un certo tipo di contesto a una persona, la sto già indirizzando verso una scelta. Immaginate di avere due alternative tra loro simili, per esempio broccoli e zucchine, e di averne poi una terza completamente diversa e dominante, le patatine fritte. Mia figlia, figuriamoci, non penserebbe mai di scegliere una verdura, potendo avere le patatine fritte. Ecco, le patatine fritte sono l’esca, perché l’effetto è di dire “è logico scegliere l’alternativa che domina”. Questo è il decoy effect.

Nel caso di mia figlia non ho applicato esattamente il decoy, perché metterle le patatine come alternativa avrebbe creato uno shift di attenzione – si sarebbe concentrata solo su quelle. Ho direttamente cambiato l’architettura della sua scelta. Non le ho chiesto “vuoi la verdura oppure no?”, ho superato quella scelta, decidendo io per lei, e le ho chiesto “vuoi i broccoli o le zucchine?” in modo che lei desse già per scontato di dover avere una verdura. Ho ristrutturato il suo ambiente decisionale per guidarla gentilmente in una direzione che volevo io.

Queste sono strategie di nudging: io faccio in modo che mia figlia mangi le verdure perché le fanno bene. E infatti si chiama paternalismo libertario. A questo punto ci si può chiedere, però, chi decide qual è il bene per le persone, ma questo è un altro discorso.

Quindi è vero che davanti a pubblicità e comunicazione siamo sprovvisti di strumenti interpretativi, come i bambini. Siamo tutti manipolabili, non cambia con l’età.

Direi assolutamente sì. Non cambia niente che tu sia un bambino o un grande manager d’azienda. Attenzione però: volendo generalizzare possiamo dire che euristica [metodo di ricerca preliminare a uno studio, ndr] e bias [distorsioni di fatti e/o avvenimenti, ndr] si sono innestati negli esseri umani come strategia di sviluppo e di per sé non sono sbagliati, anzi, sono utili. Pensate a questo: quando abbiamo preso la patente e guidavamo all’inizio facevamo attenzione a ogni singolo movimento. Vivere così diventa difficile. Allora cosa succede, che col tempo ci abituiamo a prendere decisioni veloci e guidiamo in scioltezza. Diventa automatico come meccanismo. Ecco, euristica e bias funzionano così e sono utili per questo.

Poi una domanda può essere: ci permettono sempre di raggiungere la massima utilità per noi? No, spesso si basano su un’emotività che ci fa andare fuori strada. Ma questo è un altro discorso.

E invece facciamo questo discorso. Spesso prendiamo delle decisioni o crediamo ad alcune cose perché spinti anche da dei bias emotivi e non in modo razionale. Magari l’intelligenza artificiale, che è forse più razionale di noi, potrebbe aiutarci a prendere decisioni più utili e meno emotive.

Secondo me bisogna a monte ragionare su questa domanda. Perché può sembrare strano ma noi in realtà abbiamo già questo sistema integrato nel cervello e si chiama Sistema 2, anche se un po’ superato in letteratura. Per farla breve, il nostro cervello è suddiviso in due Sistemi, l’1 irrazionale ed emotivo, e il 2 razionale e logico. Anche se non tutti pensano più a questa rigida dicotomia, ma qui facciamocela andare bene.

Andiamo sul pratico per capirci. Prendiamo i fumatori. Loro sanno già che fumare fa male, quindi hanno già attivo il Sistema 2 possiamo dire. Ma semplicemente non lo ascoltano. E perché non lo ascoltano? Perché rincorrono il piacere dato dalla sigaretta, nel linguaggio scientifico si parlerebbe di circuito dopaminergico. E il piacere ci piace più della razionalità.

Quindi anche se, ad esempio, avessimo un auricolare con un’intelligenza artificiale che ci suggerisce quale dovrebbe essere la scelta migliore e più razionale il nostro cervello risponderebbe and so what? Quella vocina lì ce l’abbiamo già tutti, ma non la ascoltiamo.

Il nostro problema intrinseco è che siamo rotti. Come esseri umani dovrebbero portarci a sostituire qualche pezzo interno. Perché abbiamo questa componente edonistica che vira sempre in direzione del piacere. Ovviamente, però, da un punto di vista tecnico il sistema è adattivo, non difettoso. L’errore sistematico nasce da una funzione che agisce bene in media, ma può portare a esiti subottimali in contesti specifici.

Non è che a noi mancano le informazioni che potrebbe darci l’AI, quindi, il problema è che le informazioni razionali che abbiamo non colmano quella necessità di continuo piacere che cerchiamo.

Ora la sto esagerando, ma il meccanismo di base è questo: il desiderio e il piacere superano il beneficio e l’utilità. Dire che basta solo avere a disposizione delle informazioni per prendere delle decisioni giuste sarebbe come curare una persona dicendole “smetti di avere la febbre”.

E invece noi siamo pigri e ci affidiamo ai bias e agli automatismi, anche quando ci fanno male.

Diciamo che il punto è lavorare sul debiasing, ovvero sulla consapevolezza della presenza di questi meccanismi che abbiamo, raccontare il mondo che sta dietro questi meccanismi che ci fanno prendere delle decisioni spesso contro il nostro interesse. Poi, che lo faccia l’AI o un corso di formazione… Non importa cosa produce il debiasing, in ogni caso è una cosa positiva. L’importante è che lo strumento interagisca col cervello e non lo faccia impigrire.

A questo punto andiamo su una materia più specifica. Lei è specializzata nell’eye tracking. Ma perché è così importante capire dove va e come si comporta l’occhio umano?

(sospira) Perché esistiamo? Esiste la vita su Marte?

A parte gli scherzi, è importante capirlo perché l’occhio in generale ci dice un sacco di cose.

Solo per dirne una, prendiamo la dilatazione pupillare o cognitive load. Questo ci dice quanto ci interessa o ci piace quello che abbiamo davanti a noi. Ancora, il blink rate, cioè il numero di volte in cui sbattiamo le palpebre. Questo ci dice quanto è difficile il task che stiamo facendo. Anche solo da questo, gli occhi ci raccontano molte cose. Ma si può andare avanti, per esempio studiando i movimenti che fanno.

Immaginate di avere davanti a voi una pagina bianca con solo un puntino rosso davanti e capiamo come la persona reagisce rispetto a quella immagine.

Una variabile è il time to first fixation (tempo di prima fissazione), cioè la misurazione di quanto tempo impiega l’occhio a vedere il puntino rosso sulla pagina bianca. In questo caso, il tempo sarà breve perché è un’immagine semplice. Un’altra variabile è il dwell time, cioè il tempo che l’occhio trascorre a guardare il puntino rosso dell’esempio. In pratica, ci dice quanto quell’area di interesse, come si chiama, ci tiene agganciati, ci intrattiene.

La terza variabile che si usa è il numero di fissazioni, cioè il numero di volte in cui facciamo una saccade [il metro con cui si misurano i movimenti veloci, che di solito utilizziamo per orientarci subito in uno spazio nuovo, ndr]. Ancora meglio: il numero di fissazioni ci dice quante volte guardiamo il punto rosso sulla pagina bianca, spostiamo lo sguardo e poi torniamo a guardare il puntino rosso.

Be’, già solo da queste tre variabili si possono ricostruire parecchie cose. Un esempio?

Prendiamolo dall’editoria, è l’ultimo studio che ho fatto insieme a Valentina Notarberardino [autrice editoria e tv, ndr] e riguardava le copertine dei libri in vetrina. Abbiamo analizzato due copertine nello specifico: Domani, domani e La portalettere di Francesca Giannone (Casa Editrice Nord). Con le metriche che dicevo prima, studiando i libri in vetrina e a scaffale, volevamo capire se, ad esempio, la presenza di un volto femminile attirasse maggiormente l’attenzione oppure no. Oppure la differenza di reazione tra uomini e donne o ancora se la posizione – in alto o in basso sullo scaffale – cambiasse la percezione del libro.

Queste sono domande che ci dicono cosa piace al pubblico e aiutano grafici e designer a capire come studiare una copertina o fare una pubblicità.

Un altro studio che ho fatto, invece, era sui video pubblicitari su YouTube, una comparazione tra una campagna Save the Children e una di Medici Senza Frontiere. Una campagna aveva un framing positivo, cioè bambini che ridevano, l’altra uno negativo, cioè ritraeva persone sofferenti. Volevamo capire quale emozione, se positiva o negativa, portasse le persone a fare più donazioni.

Chi ha vinto, bambini che sorridono o persone sofferenti?

Diciamo che il framing negativo portava a una donazione maggiore. Probabilmente mediata dal senso di colpa.

Però aspetti, questo è Emotional Tracking [tecnica che mappa le emozioni dell’utente, ndr]. Sapendo, dagli studi, come le persone reagiscono emotivamente alle immagini che vedono, si possono comporre visual apposta per suscitare una reazione emotiva. Ma a questo punto i nostri cervelli non rischiano di diventare delle macchine di emozioni in serie in stile fordista? A ogni immagine, un sentimento.

Piano. Allora, questo è un aspetto molto rilevante, tant’è che nei miei studi sui movimenti oculari aggiungo sempre altri due elementi: la risposta galvanica della pelle, cioè la misurazione della sudorazione (indice psicofisiologico che dice quanto ci stiamo attivando emotivamente) e lo studio delle espressioni facciali che suggeriscono quali emozioni stiamo provando.

L’insieme di queste tre cose fa capire cosa sta provando quella persona guardando quella cosa nello specifico, e in che misura sta provando quell’emozione.

Quello che ho notato nei miei studi è che siamo una macchina molto complessa che non si può mai manipolare nel dettaglio, come quando facciamo un esperimento e modifichiamo una variabile per capire che effetto ha.

Quindi capisco quello che dite ma non è così lineare il rapporto causa-effetto. Non siamo macchine perfette: non è che si butta nella black box (il nostro cervello) una cosa e quella dà come risultato un’altra cosa in modo così sistematico e regolare. Non siamo macchine perfette, siamo complessi sia nel nostro cervello che nel mondo che ci circonda.

Possiamo dire che quello che nella vita ci fa dannare, ovvero essere complessi, inafferrabili e incomprensibili è ciò che ci salva dall’essere totalmente vittime della pubblicità?

Sì, direi proprio di sì. Altrimenti saremmo degli automi che comprano tutti iPhone, hanno tutti le Nike e come dei robot usano TikTok nello stesso modo. E invece per fortuna abbiamo differenze individuali, passati differenti che influenzano le nostre scelte, abbiamo dei valori interni che influenzano i comportamenti. Quindi c’è un margine di persuasione, quello sì, però la persuasione ha dei livelli per cui non è che se noi vogliamo comprare una determinata cosa i pubblicitari ci portano a comprare la cosa totalmente opposta tramite la persuasione. Bisogna stare attenti a queste conclusioni, non è così.

Visto che anche noi adesso ci stiamo parlando attraverso lo schermo di un computer, andiamo sui device tecnologici. Uno studio dell’Università della California (American Psychological Association) ha dimostrato come la nostra soglia dell’attenzione in circa dieci anni si è abbassata, e non di poco: siamo passati da 3 minuti a 40 secondi.

È possibile che il nostro cervello stesso stia cambiando – anche biologicamente – con l’uso dei device?

Qualche giorno fa ero in treno e sono rimasta sconvolta. Ho visto un ragazzino scrollare sul cellulare e mi sono accorta che io scrollo molto più lentamente, perché non riesco ad accedere alle informazioni prima di decidere se una cosa mi interessa o meno. Lui invece aveva la capacità di decidere se una cosa gli interessava o meno in modo estremamente veloce. La sua velocità di scrollata era di molto superiore. E questo mi ha sconvolto perché stiamo entrando in un mondo dalle capacità attentive drasticamente ridotte.

Però su questo mi viene in mente una teoria di Marshall Mcluhan secondo cui il mezzo è il messaggio per cui usare uno strumento non trasmette solo il contenuto ma anche il modo in cui viene raccontato il messaggio. Se facciamo l’esempio del libro, che è statico, vediamo che si tratta di uno strumento che permette di fermarsi, rileggere, lascia il tempo di assimilare. Una fruizione diversa da Instagram.

Ora, il nostro cervello è plastico e questo ha un impatto a livello corticale: se fruisco un mezzo che mi dà il tempo di pensare, il mio cervello si adatterà a questo; se scrollo alla velocità di millisecondi su un cellulare il mio cervello andrà in un’altra direzione. Quella in cui ha bisogno di essere continuamente colpito da microstimoli perché non riesce a mantenere l’attenzione oltre un tot di tempo. E questo è pericoloso.

Il fatto è che, a livello corticale, avendo noi un cervello plastico come detto, se passiamo tutta la vita così, ci adatteremo a quello. Però non bastano dieci anni perché avvenga un cambiamento biologico, i nostri figli e i loro figli non trasmetteranno questo cambiamento corticale ai loro discendenti. A parer mio, si intravede già un trend pericoloso che va invertito perché avere una soglia dell’attenzione così bassa è limitante e potrebbe causare una ristrutturazione corticale nelle generazioni future – anche se parliamo di centinaia di anni.

Probabilmente ci estingueremo prima. Sempre per essere ottimisti.

Andiamo fuori dal mondo della pubblicità ora. Nel lavoro di SPOT, una delle domande che ci poniamo spesso è: le leve neuroscientifiche utilizzate nella pubblicità valgono anche in altri campi? Per esempio: la comunicazione politica sfrutta alcuni principi simili – se non identici – a quelli usati per la vendita di una scatoletta di tonno?

Io non mi interesso di politica, dunque nello specifico non ho mai analizzato campagne elettorali da un punto di vista psicologico. Ma mi interesso molto di policy che spesso usano le spinte gentili, il nudging che dicevamo prima. Queste policy fanno leva su meccanismi psicologici – quindi non multe e compensi economici – per portare le persone a prendere decisioni di cui beneficeranno.

In UK esistono delle vere e proprie unit governative che utilizzano questi meccanismi psicologici per realizzare policy pubbliche capaci di portare le persone a compiere scelte positive per il benessere collettivo, ad esempio pro ambientali. Sarebbe interessante se lo facessimo anche in Italia.

Non è detto che alcuni comportamenti di nudging, quelli pro ambientali, per esempio, verrebbero definiti comportamenti positivi proprio da tutti, purtroppo.

Sì (ride) in Italia abbiamo ancora il problema a monte di capire cos’è positivo.

Però a proposito di questo, di polarizzazione rispetto ad alcuni argomenti come quelli green, c’è una marea di notizie false continuamente rafforzate dai bias e dalle scelte emotive e non razionali delle persone. Sembra un mercato in espansione inarrestabile. Visto quello che abbiamo detto finora, cioè che l’argomentazione razionale non basta, cosa possiamo fare da un punto di vista neuroscientifico?

Allora, noi siamo pigri, l’abbiamo già detto. Tutto ciò che è emotivamente saliente, veloce, per cui non dobbiamo investire energie ci piace. Se ci arriva una notizia appealing tendiamo a crederci e fine. Il discorso, però, è che noi siamo più di questo. Allora magari andiamo a vedere la fonte di una notizia, controlliamo se anche altri la riportano, cioè andiamo a verificare quanto quella notizia è affidabile.

In un primo momento ci lasciamo prendere in modo automatico dalla notizia, perché siamo proni a livello emotivo e accettiamo ciò che riceviamo in modo passivo. Dopo però ci fermiamo e andiamo a cercare altro perché in qualche modo subentra la parte più razionale.

Questo ci turba perché non vediamo questa tendenza da parte delle persone a ricercare fonti più attendibili per confermare la notizia. Diversamente persone come Andrew Tate non avrebbero successo nella vita. Dunque è difficile chiedere alle persone quel tipo di attivazione, perché appunto sono molto pigre e dunque è difficile che in totale autonomia si convincano ad andare a cercare una notizia.

Di certo il trend di oggi non è quello di fermarsi e andare alla fonte. Io spero in una risposta a livello normativo. Il discorso è: queste persone che prendono per oro colato ciò che leggono senza controllare, in che direzione vanno?

Noi prendiamo delle decisioni in base ad alcune variabili tra cui il mondo che ci circonda: questo influenza anche l’architettura delle mie scelte. Se tutto l’ambiente è distorto, farò scelte differenti basate su quella distorsione.

Io non sono preoccupata solo delle notizie false ma anche delle immagini. Perché il testo è sicuramente importante, ma l’immagine è più suggestiva. Le persone diranno “c’è l’immagine, è palese che sia così”.

Quindi la soluzione è autoimporsi di essere critici e che si gestisca a livello normativo un sovrabbondare di fake news scritte e visive.

E continuiamo su questa scia di ottimismo.

Ora siamo un po’ autoreferenziali: questa rivista, SPOT, ha un sottotitolo ovvero Brutti, Sporchi e Cattivi. È un’attribuzione “scherzosa” che diamo ai pubblicitari e a chi si occupa di comunicazione nella vita. Perché capace di manipolare le decisioni delle persone. Tutta colpa loro, insomma.

Tenendo presente quanto abbiamo detto finora, secondo lei quanto è sottile il confine tra un uso etico delle neuroscienze e lo sfruttamento delle vulnerabilità dei consumatori (o in generale di chiunque si trovi sotto i colpi di pubblicità e comunicazione, cioè tutti noi)?

In realtà non ho una risposta, non c’è un manuale. Però sicuramente una cosa rilevante e che non si fa mai è guardare e studiare la letteratura. Tantissimi studi sono già stati fatti, non siamo all’anno zero rispetto a nulla. Sappiamo già se determinati elementi ci manipolano oppure no. Imparare a leggere studi precedenti nel campo delle neuroscienze e del marketing sarebbe davvero importante per queste discipline.

Io sono più per il nudging utilizzato per scopi “nobili”, cioè per dare un beneficio individuale e collettivo. Anche se esiste una variante dark che è lo sludging, ovvero quando la persuasione si usa non per il bene del consumatore ma per portarlo a compiere azioni che diversamente non avrebbe compiuto. Lo sludging aumenta la frizione o l’opacità per ostacolare scelte ottimali; sono un esempio i moduli nascosti per disdire gli abbonamenti.

In pratica, non porta a comportamenti positivi – per esempio pro ambientali e per la comunità – ma semplicemente a spendere di più. Quindi ci sono casi in cui palesemente si può dire che usare meccanismi psicologici non sia giusto. Ma tanti casi sono nella zona grigia.

Dipende sempre. Altrimenti, se diciamo che non si possono mai usare i meccanismi psicologici allora davvero dovremmo tornare a realizzare packaging, materiali informativi e siti web tutti bianchi con solo le informazioni rilevanti in nero. E poi, che formato? Times New Roman o Arial? Grandezza 12 o 11? Eh, ma lo stai facendo troppo grande o troppo piccolo. Quindi, come vedete, comunque bisogna prendere delle decisioni: font, grandezza, posizione. Anche qui, si tratta di decisioni che in qualche modo influenzano il consumatore. Ma dire che si può arrivare a una situazione, come dire, minimalista, significa dire che non ci sarebbero variabili confondenti.

Ma la domanda è: è questo quello che vogliamo?

Forse vi ho fatto più domande io di quelle che voi state facendo a me.

No, in realtà è l’ambizione che avevamo quando siamo partiti a lavorare a SPOT. Ovvero creare un ambiente, far coesistere degli spazi multidisciplinari diversi su questi temi pubblicitari e di comunicazione. Volevamo mostrare un po’ di complessità aggiuntiva rispetto a una materia che all’esterno viene vista più semplice di quanto in realtà non sia.

Alla fine vogliamo più stimolare domande che ottenere risposte. Ché tanto di risposte non ne abbiamo. Nel campo scientifico, in cui si muove lei, di risposte ce ne sono ancora meno, perché così è strutturato il metodo. Dunque, paradossalmente, va benissimo che ci ponga lei delle domande.

Grazie.

Qualche lettura in più per approfondire:

Il nudging di cui parla Dorigoni è un termine coniato da Richard Thaler e Cass Sunstein in Nudge. La spinta gentile: La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità (tradotto in italiano da Adele Oliveri, Linda Martini e Aurelia Di Meo per Feltrinelli).

Quando Dorigoni parla di differenza tra Sistema 1 e Sistema 2, la fonte è Thinking fast and slow di Daniel Kahneman (in italiano tradotto da Laura Serra con Pensieri lenti e veloci per Mondadori)La teoria di Marshall Mcluhan secondo cui il mezzo è il messaggio si rintraccia anche ne Gli strumenti del comunicare, traduzione a cura di Ettore Capriolo per il Saggiatore)

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